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autori che più mi sono piaciuti

 

Nautilus Verne, Precious Tolkien, Moby Melville the first books I remember my mother used to read to me, I can’t recall at what age that was or when it stopped nor why, it must have been a shock- although I can picture her perfectly, young, standing in front of my bed, ass on the heater under the big window, she still didn’t have to wear glasses, I feel like I should probabily warn her “mother stop reading till late”, but, by then I could read by myself… which is not the same thing though, however, probabily those were the longest or the first after the fairytales and that’s why I remember them Achab Melville, Huckleberry Twain, Tarzan Burroughs and Robinson Defoe, The call of London’s Fang, Salgari from Monpracen, Baron Calvino rampante, Eco Foucault, Daniel Malaussene, Rowling Potter, One no one and one hundred thousend Pirandello, Brizzi : Bastogne & Frusciante left the Group, Alice Carrol, Orzowei Manzi, don Cervantes, Gulliver Swift it’s super shady I’m not sure that I really liked it is it normal?, most of Hesse, kill the mockingbird Lee, Hulmann Reunion, Baricco ocean’s pianist, Cohelo’s warrior, Grisham attourney tired me after a few, Tolstoj to the zar, Herbert Dune’s messaiah, Ami friend from stars Barrios

Most of them weren’t suggested to me at school is that why I liked them more than the others? could be the other way around, I removed them teacher telling me to so it’s sweeter that i liked them..

At this point probabily I left for one year in Australia where i took only Fante Ask the dust, there goes the medioevo of my culture.

but I came back and there was a philosophy library in Milan where i had the most beautiful times, you should see it, i chiostri di Via Festa del Perdono will never die in my heart, fun & friends & literature…I also co-founded a small literary zine called Follelfo with some friends that lasted 3 years and published 4 numbers…

my superiper megagiga ultrastra favourite along the way Huxley- in order: the Island, Brave new world, the perennial phylosophy, anyone knows Gurdjeff? I’ve been involved in a group in France 07 my first poem The Ascent is there to proof how intense that was…

Also sprach Nietzsche, Maya Schopenauer, Novalis sais nights, before disliked poor Dostoevskj, Terzani end, upanishad,veda,mahabarata,bagavagita,gilgamesh,lao-tzu,chuang zu, Watt’s Zen, Rumi’s rose, Goethe’s Faust, Wine und Holderlin, Rainer maria in Duino, where did i find the time for Proust? Baudelaire du mal, the Daumal Analogue and also The Big Drunk, Shuzo’s iki’s structure (it’s a peradam a particoular cristal stone that you can find on the Mount Analogue of Daumal once you’ve sailed through the unknown towards the unknown but has to be there and left port of the monkeys ready to climb), I try my french with Verlaine, Diderot le fataliste, Candidof Voltaire, Trahaumara’s Artaud, the devil and the good Sartre, Strindberg’s father, Canetti autodafè, The shadow of the wind of Zafron, Bruno’s spaccio, Quintana’s speaking wind singing sand, Ode to Frankestein Shelleys, how many are there of Hesse besides ozium&siddharta, what’s your favourite? how cool is Shouting Ginsberg? and solitary walking with the old Roussau reveries? the dharma Kerouac bud, I hated my translation of Walden, I have to check if the original is better…Steinbeck Cannery , the young devine Michaelstadter melody, young artist Dedalus’ Dublin & finnegan wake’s esperanto, Cioran’s misantropy, Enzensberger dylogues, Gwyn’s point of order, Celine trip to the end of the night, the Profet Gibran

I studied also political authors but that would be oversharing I guess.

 

 

melo dramma

una giornata dedicata a me stesso, da solo come un pescatore sotto un melo tra le cui fronde tesse la tela il ragno su cui si posa il pettirosso che guarda la mela maturanda sulla riva di un mare dove al tramonto passano ballando due delfini e sul balcone poco lonano con un tulipano rubato da massi e una candela che lo attira manco fosse una farfalla che finisce nella ragnatela su quel ramo dove la mela viene còlta dal contadino mentre il poeta aspetta l’istante perfetto come una sveglia d’oboe nel petto che mai più verrà perchè viene corrotta, invece che rinsecchire sul ramo si lascia cadere viene rubata marcisce, chissà dove metterà i suoi semi, peccato che pei meli non funzioni la talea e questi rami di troppo non possano attecchire altrove

detti della lucia

per des voelt al veh fò bell

ma poh la moer la vaca e anca ‘l videll

 

per dieci volte viene fuori bello

ma poi muore la vacca e anche il vitello

 

una cosa può venire bene mille volte ma può anche andare completamente storta

drastica poetatura

evitare di starti col fiato sul collo

pur volendolo baciare in ogni istante

essere presente senz’esser pedante

almeno da lontano esser meno pesante

che t’amo ovunque sia dev’esser spaesante

nell’aneddoto della mela ora mi sento il ramo

né il saggio che la coglie né il poeta dotato che proclamo

ti guardo ti sostengo ti nutro con un dito

siamo una cosa sola finchè mi lascerai

mi tiri verso te e a terra mi trai

m’attiri verso il vuoto ti sento oltre l’udito

ho visto in te il fiore come l’avessi in mano

ora vedo la mela rotolare lontano

peccato che pei meli non funzioni la talea

da moriderne

dall’album famosi poeti felici

rime d’amor
da morir
da morirne
da moriderne

cosa vuol dire amare?
come, quando lo si può dire
senza si può morire?
ti fa credere, sognare
ma non ti fa dormire
volere potere donare

aruspicismi

se potessi ti manderei un piccione viaggiatore
a portarti le mie lettere e poesie d’amore
così da evitare qualsiasi alterco
e se non mi vuoi che t’innondi di sterco

what if

dante e la sua beatrice:
sarà stata affabile o una meretrice
se fosse stata…
e se ci fosse stata?
del resto mi ricordo più che altro l’inferno
quanto casto, quanto castrato era davvero quell’amore?
quanto c’avrebbe messo in treno?
avrà avuto un altro?
magari era solo finzione letteraria
forse era lui a tenere le distanze ideali per mantenere in vita il
suo vero amore, la lingua
non chiedere troppo ed avrai abbastanza
apprezza e non sprecare l’abbondanza
la disillusione è una colpa o è merito dei cacciatori di sogni?

Prove di teatro

CORO:

vivo per voi con voi

rido di voi con voi

vivo al vostro posto

e ve lo mostro

parlo di voi tra me e di quello che non c’è

vivo per voi condivido

la struttura che vi contiene

la falsità che ci conviene

la facilità con cui lo vedo

le maschere e tutto il corredo

PROLOGO IN CIELO

MEFISTOFELE: fottuto presuntuoso d’un dio davvero credi di poter conoscere e veder dentro l’uomo? sai forse riconoscere ciò che lo nobilita e svelare chi possiede tale capacità?

UN DIO: vuoto mefistofele proprio lei, dall’abisso mi parla di capacità? il prodigio delle possibilità sprecate vuole mettere alla prova la maestria con cui so giudicare? fare del bene e fare del bello sono abilità che padroneggio dall’eternità e che so percepire in uno spirito prima di vederlo in azione.

MEFISTOFELE: illuso buonista che t’hanno insegnato? confondi il bene con ogni cosa per monopolizzare la bellezza! da me hai imparato menzogna e inganno ma ora ti svergognerò, fallito!

UN DIO: bada, giocheremo con gli umani un’ultima volta, per la vita o per l’oblio

MEFISTOFELE: ho giusto un campione d’artista, un esteta arrogante che crede di stare dalla tua parte, se lo ritieni idoneo mettilo alla prova!

UN DIO: e sia, maledetto demonio, dovrai ammettere che le belle opere non possono che fare bene.

Replica 6abiura e iniziazione on maggio 23, 2008 said: TONSURA ED INGRESSO NELLA SCUOLA

DISCEPOLO: Stentata inadeguatezza rinchiusa in una falsa libertà, come abitudini bisogni irrilevanti e come rarità gesti gratuiti, voglio sbarazzarmi del libero arbitrio degli altri, per questo rinuncio al mio e ve l’affido, svuotarmi dai desideri sarà averli consumati, voglio imparare l’impersonalità della macchina e l’immobilità dell’inanimato, sarò vostro servo e discepolo come una foglia nel vento.

MAESTRO: L’addestramento al rituale richiede un assorbimento completo, sarai in mio potere e una parte di te verrà sconfitta, quello che cerchi è un regredire per elevarti,ma in guardia: ambire l’umiltà è pericoloso! L’oltre uomo non è in ogni direzione starà a te decidere il senso del verso, una volta infranti i limiti dovrai tornare e niente sarà più la stessa cosa, potresti voler non essere nemmeno partito. Sopravvivere al suicidio ti cambierà e dovrai accettare quel che sei.

Replica 7CIECA PUTTANA on maggio 23, 2008 said:

FORTUNA: Non essere avido nel donare, mal che vada niente andrà perduto, godrò io di quel che ti è più caro, punta sempre più in alto di dove speri arrivare, giocati tutto giacchè non basta quel che possiedi, un pò per volta ti logorerai, concentra l’adrenalina e le speranze in un’unica chance, vivi in quel momento più che in miliardi di vite, prendi in mano le possibilità e prega sia una buona mano.

GIOCATORE: Pregare chi puttana truccata? M’irretisci con sogni fatui, mi istighi a votarmi a quel cornuto del tuo consorte, il caso, ma questa volta non ho nulla da perdere e tutto da guadagnare, davanti a te gioco a carte scoperte, non ho nient’altro che l’occasione di rischiare e sei tu la posta in palio.

FORTUNA: Sciocco testardo non mi avrai mai, ti aggrappi ad una remota probabilità e ti sporgi a peso morto sul precipizio della disperazione, ti userò sempre come pedina, te la farò annusare ma non potrai mai possedermi, sei invischiato nel vizio che ti domina, maneggi numeri, carte e dadi ma scommetto che saranno la tua rovina.

GIOCATORE: Accetto la prova e l’eventuale lezione, con destrezza piloto le sequenze eventuali future mentre tu nel distribuire sei maldestra e la leggerezza con cui lo fai malcela la tua disonestà, donna volubile e capricciosa il destino non dipende da te. Alza e vedi di iniziare col darmi una scopa!

Replica APPLAUSI on maggio 26, 2008 said:

IL CORO SPOGLIA L’UOMO E LO GETTA SUL PALCO DOVE SI SVUOTA.

“Nudo e cieco! Favola di pietà e orrore, a scudisciate mi hanno spellato le inibizioni dalle terga, visioni corrosive mi ardono negli occhi. Solo voce! dinnanzi agli occhi annidati nel buio, sanno solo ridere e applaudire, da ogni parte sguardi voraci mi giudicano. La vita non è che automatico esercizio di respirazione, modulare vibrazioni. Il corpo non è che strumento: devo padroneggiarlo senza pensarci e dare un segno. Ma non sono già più io, il bisogno mi domina e devo svolgere il mio destino devo sempre dimostrar qualcosa devo distinguermi devo calcolare statisticamente come comportarmi, devo innanzitutto essere per poter diventare migliore, devo mettermi alla prova costantemente. Acida lucidità mi faccio schifo fino al vomito, perdo coscienza nel cesso. Solo silenzio!”

APPLAUSI? IL CORO APPLAUDE SGHIGNAZZANDO pessime battute sulla dimensione del pene dell’artista

CALA UN CAPPIO E ALTRE CORDE CHE IMPRIGIONANO L’ARTICOLAZIONI

VOCE FUORI CAMPO “Io sono tutto o nulla” “io sono l’arte o poca carta da macero”. “Io sono la voce dei tempi o nemmeno l’eco di una voce umana” “insultali contorciti, scandalizzali, mostra loro cosa sei intimamente: liberati davanti alle loro espressioni di sconcerto, prova i sentimenti più stridenti, colpisciti, violenta le loro credenze, mostra loro quanto sono legati, muori per loro, smetti di fingere, pentiti di essere umano!”

CORO: Il suono del corpo che si spezza agghiacciante, il tanfo pestilenziale della vergogna Nel vomito legge il futuro, ridicolo e imbarazzante topo di fogna.

RESURREZIONE

“Rimasi avvinghiato e caddi dopo essermi elevato, più in basso di prima mi sembra di strisciare, lo slancio, il conato il dolore il dazio dell’estasi, ho perso il controllo delle funzionalità basilari, ho conosciuto movimenti che mai un essere animato ha sperimentato. Mi sono sporto sull’abisso del dover ad ogni costo improvvisare, ho visto il mondo dietro una benda. Ancora sento il corpo vibrare di brividi, ma cosa rimane? Torna l’attenzione sui resti del mio corpo stuprato, mi sono rivoltato e ho sciolto ogni barriera. Rimane il fetore e uno schizzo profetico, come cenere mi libro a strappare lo schermo, con questo sudario ricopro le piaghe esplose per cicatrizzare le ferite. L’esorcismo è riuscito ma gli escrementi mi nauseano, se questo fosse un museo quella sarebbe arte, terminato il rito, sacrificata la dignità, resta la sete di vita. L’attimo a cui ho rinunciato è quello dell’estrema decisione, lì ho sospeso la mia volontà innalzandola, ho soffocato le pretese del mio intelletto ed esasperato il senso del gusto e quello morale, torno dal limbo alla normalità provato e fragile, ho pagato la mia libertà rinunciando ai valori ed ora rieccomi tra voi come un untore.”

ROMPENDO UN ALTRO MURO SCENDE DAL PALCO E SI CONFONDE COL CORO

Qualunque suggerimento o correzione sono benaccetti, questo è un workinprogress…

La riuscita della messinscena dipende esclusivamente dall’interpretazione dell’attore, è lui a provare sulla pelle il percorso che io mi limito ad indicare. PINK FLOYD sottofondo. Per Resurrezione leggere Tolstoj ma intendere “L’uomo che era morto” di Lawrence. Per tonsura pensare a santa Chiara e per strip-tease san Francesco. “il giocatore” è di Dostojevsky ma và integrato con L’UOMO DADO autore di “Non Comprate Questo Libro”. Le battute iniziali del burattinaio sono rubate da “Considerazioni sull’uso documentario dei testi teatrali editi”. Tratto da “l’Attore e l’Autore” edito dal Comballo. Per immaginare il volteggiare del burattino Von Kleist : “sul teatro di marionette” Il Faust è un faust deformato, chiedo venia agli intenditori. Il coro è l’onomatopea che accompagna il mimo dell’attore-burattino nel monologo dell’invisibile manovratore.

quanto muta

quanto muta il volubile animo mio
quanto parla è da manicomio
copre quasi il sentire
che è cangiante come un fiore

e la tua immane immagine che pare mi tocchi
e le sue riflessioni nei miei occhi
pretesa indifferenza, pretenziosa speranza
un’attesa che è ormai solo mancanza

rimpianto per un futuro lasciato in sospeso
un presente ancora lontano dal sogno
rabbia impotente quasi fossi geloso
disabilità affettive di cui mi vergogno

come se da un mio errore sia tutto dipeso
sarai poi la felicità a cui anelo ed agogno?

castelli di sogni

Sogno strano forte

 

 

Mio fratello mi libera una volta e mi rinchiude la seconda, così da rimetter in carreggiata il destino, nei sotterranei di un castello.

Però io non lo sapevo che era stato lui a salvarmi la prima volta e anche dopo aver rischiato la vita non volevo dirgli che avevo trovato il passaggio segreto.

Il fratello fin da subito sa del segreto e ne vede lo sviluppo, una continua anamnesi dello stato della mia mania ma a sua volta è affetto dagli effetti che il castello ha anche su di lui.

Lo sa fin da subito perchè mi ha sgamato inciampare quasi nel pulsante, non dissi niente quella volta a mia madre perchè ci aveva proibito di andare a giocare sulle rovine del lavatoio.

Anche lui lo vuole tutto per se, e mi odia per avergli tenuto un segreto così vile, così gretto

un mondo intero che non avevo mai voluto dividere con lui, che pure sapeva, che ne stava lontano, lui che seguiva tutte le fasi del peggiorarsi della mia dipendenza.

Mi ricordo solo che ero nel lavatojo perchè i meccanismi funzionano con pompe idrauliche

mi sembra di aver visto qualcosa di luccicante? un monile forse?

 

Oppure una pietra fuori posto, sembra tutto distrutto ma ancora qualche muro c’è intorno, sembra che l’acqua non scorra da tempo eppure i marchingegni idraulici funzionano perfettamente.

Magari tutte le pietre erano grosse uguali o con la stessa forma e ho notato quella diversa….anzi avendo capito che la legge in quello strano luogo è quella del tutto tranne, vedendo un muro tutto intero e con tutte le pietre uguali ho capito che c’era qualcosa sotto…sono andato a ficcanasare e son scivolato nei sotterranei, o meglio quasi, perchè non volendo farmi scoprire son prontamente risalito fingendo di essere semplicemente inciampato.

 

Sperando nella disattenzione del fratello decisi di contravvenire ai  miei principi e di non dire niente a nessuno, il silenzio del fratello come un vento spazzò la nube di dubbi e di angosce sul pericolo di esser scoperto, la speranza di non esser stato notato divenne presto certezze e col passar del tempo svanì dall’elenco delle preoccupazioni che un ragazzo bugiardo deve sempre tener da conto.

 

Tornano a casa e non succede più niente?

Per un po’ niente, meglio non insospettire gli altri tornandoci, ogni tanto qualche sogno strano…Ma in qualche modo appena uscito dall’infanzia mi è tornata la voglia inspiegabile di tornarci.

è buio e non capisco se c’è un frastuono di fondo, o siamo in una bolla che assorda tutti, una specie di terremoto deve sembrare una piccola scossa di assestamento: sembra un tuono lontano, ricordo che la mamma aveva parlato a lungo di quella stranezza in macchina, un tuono a ciel sereno.

Se penso che ha voluto farsi seppellire proprio nel cimitero di quel castello, chissà se si era accorta anche lei di come quel posto ci aveva e ci avrebbe condizionato la vita.

 

Non mi ricordo nemmeno perchè c’ero tornato in quel posto, m’aveva come stregato, è l’unica spiegazione…Il fatto che in quel luogo ci fosse sempre un’eccezione mi aveva come incantato e quella porta su un’altro mondo, certo buio e umidiccio presumibilmente stretto e gonfio di muffe, ma assai misterioso e solo mio.

Sulla fontana fioriva ancora la ruggine, o meglio come l’edera aveva invaso anche i sassi che ormai asciutti parevano ricoperti di una polvere amaranto.

Insomma a pensarci mica doveva essere un granchè… Magari era solo un ripostiglio o un cunicolo che ne so…

Tra l’altro la prima volta avevo rischiato di rimanere incastrato, chissà che cosa me l’ha fatto fare di riprovarci, col senno di poi maledico la mia curiosità.

Non so se fu quella la prima occasione in cui mio fratello mi seguì, non so nemmeno se ci sia stato mai prima di allora, questi particolari sono della storia sua e io li ignoro.

 

L’atterraggio non fu comodo né allora né mai, anche ad esser pronti. Uno scivolo per nulla scivoloso e appena inclinato, quasi un tubo verticale di qualche metro che ti lascia piuttosto di sasso quando tocchi il suolo.

Quando ancora il terrore che qualcun’altro scoprisse il passaggio non mi aveva ottenebrato avevo messo un materasso, subito rimosso poiché nel caso malaugurato in cui…Insomma un sacco di paranoie e se qualcun’altro ci fosse finito dentro?

Pensai addirittura di nascondere il passaggio, avevo innanzitutto staccato una pietra dal muro, così che non sembrasse uniforme e quindi sospetto.

In pratica ero ossessionato, non riuscivo a passar più di due giorni lontano da quei cunicoli.

Non so come il custode o guardiano di quelle che ormai erano solo poche mura fragili che soffrivano il disuso non mi abbia mai scoperto, magari qualche sospetto ce lo avrà anche avuto quel vecchio rincoglionito.

 

Non ricordo più nessun suono, nessun pensiero, solo interminabili ore ad esplorare quei tunnel, quelle sale, quasi come grotte sotterranee…Il buio, il buio penetrante, che soffocava quasi le torce a batterie che mi portavo, che assorbiva la luce che nemmeno le pareti terrose riflettevano.

Una brama inesauribile, una fonte a cui attingevo la sete che mi spingeva a continuare…Non mi spiego quei momenti, preso dal folle raptus di conoscere ogni angolo, sapere i passi che dividevano due stanze, misurare ogni corridoio.

Cercavo ormai da mesi di ricreare la planimetria di quello che andava definendosi sempre più come un intricato labirinto, che a tratti proseguiva spiraleggiando, con inclinazioni sempre diverse, quando

rimasi incastrato ancora!

Non ci potevo credere, dopo aver rischiato quella volta da piccolo non mi era più capitato nemmeno di preoccuparmi di poter restare imprigionato, il meccanismo era azionabile da una leva dal piano interrato e quindi ero relativamente tranquillo, tranquillità che svanì con le pile della batteria mentre cercavo di riparare la perdita di una delle tubature del meccanismo.

Insomma ero fottuto, ancora non avevo trovato una via alternativa di fuga, certo doveva essercene una ma se in mesi non ero riuscito a trovarne perchè avrei potuto farcela mosso dalla disperazione?

è strano come non conosci davvero un luogo che quando non vuoi uscirne, e io volevo disperatamente uscirne, ed ad ogni maledizione pareva che il castello rispondesse con un silenzio sempre più oppressivo…

Ricordo una feritoia da cui un foglio di luce passava quasi a voler infierire sul mio stato di prigioniero, a cui mi aggrappai in preda alla disperazione più e più volte fin quasi alla follia, ci si arrivava da un buco nel terreno in discesa, come un canale di scolo che dava sull’esterno forse verso il fossato otturato da una roccia che nemmeno la forza della disperazione era riuscita a farmi smuovere, mi sentivo come in Huckleberry’finn quel malvagio imprigionato nella grotta.

 

Non so se avesse sentito le mie urla o se mi avesse seguito, o se, vista la mia assenza, era venuto a cercarmi dove sapeva che stavo la maggior parte delle volte che sparivo, o se addirittura fosse là già da prima e fosse stato lui a sabotare il meccanismo.

So, purtroppo solo ora, che mi salvò la vita.

Dico purtroppo perchè non l’ho mai ringraziato, non ho mai potuto ringraziarlo.

Il passaggio quando al calar della notte tornai a cercarlo sembrava aver cambiato ubicazione, all’inizio mi sentii un po’ perplesso, disorientato, ma essendo là sotto da ore al buio più completo e avendolo trovato funzionante non mi posi troppe domande invaso com’ero dalla gioia per l’inaspettata liberazione.

Corsi fuori e decisi che ne avevo avuto abbastanza, rischiare una volta passi, due è sicuramente abbastanza, proprio non m’interessava più trovare alcun tesoro, alcuna tomba di amanti segreti, la mia immaginazione era stata mutilata dallo spavento preso, anche mio fratello dovette pensare che la lezione era bastevole a tenermi lontano da quel luogo per sempre.

 

Dopo lo spavento preso mi obbligo quantomeno ad un periodo di astinenza.

Non devo più andarci, continuo a ripetermi- il punto è che non riesco a togliermelo dalla testa, assilla i miei pensieri, è come se questi fossero rimasti là intrappolati, e quando è un po’ che riesco a pensare ad altro subito qualcosa riesce a farmi tornare in quel luogo.

Il fascino del mistero, il rischio corso, l’essere l’unico detentore di un segreto che altrimenti non esisterebbe nemmeno, ogni volta che sento la parola rovine, labirinto o addirittura muro, parete buio, è come se la mia mente fosse attratta, calamitata in un vortice senza uscita, e i pensieri tornano automaticamente a quell’angoscia di restar rinchiuso per sempre, a quanto mi senta vivo solo perchè ho rischiato di perdermi in quei tunnel maledetti.

Stare lontano da qualcosa che ti rende schiavo non vuol dire liberarsene, dovevo impararlo a mie spese quando sprofondato in una tremenda depressione iniziai a sognare di ricadere in quello stramaledetto castello ogni notte e di consumarmi le dita nel tentativo di scavarmi una via d’uscita.

Ripensavo a come tutto era cominciato, a come mi aveva attratto il pericolo di cadere nel buio che poteva esser senza fondo… In fondo avrebbe potuto essere semplicemente una trappola, una prigione invece che una via di fuga, niente lasciava propendere per l’una o per l’altra ipotesi…

In quei mesi tutto andò a rotoli, la mi attenzione sul lavoro tracollò, quasi come quando mi ero innamorato la prima volta e i risultati scolastici erano drasticamente peggiorati, e se il direttore mi diceva di smetter di pensare alla donna, ecco che io automaticamente rispondevo in tutta sincerità che la donna non c’entrava nulla, lui credeva di saperla lunga ma non faceva che farmi ribadire come nemmeno della donna della mia vita mi interessasse più alcunché.

Tutto era passato in secondo piano, ma che dico, al terzo e al quarto, perchè in primo piano c’erano quei favolosi sotterranei ancora da esplorare, facevo piani su piani, avrei portato una decina di torce, il filo d’arianna, una vanga, avrei avrei… Ma poi i sensi di colpa mi attanagliavano, la mia forza di volontà era così cedevole?

Il castello ormai aveva più potere su di me che il mio stesso cervello.

La paranoia aveva ormai il controllo totale delle mie facoltà, i nervi a fior di pelle, dormivo appena tornato dal lavoro per abituare gli occhi all’oscurità di notte, ormai ero sicuro che sarei tornato là sotto e non so da dove prendevo ogni giorno la forza per rimandare ancora e ancora il momento in cui sarei ri – precipitato in quel baratro, l’attimo in cui il mio insensato e insano volere avrebbe prevalso sul buonsenso di star lontano da quel luogo malefico.

aracnidelfino

come un ragno la sua tela, fila in trame a lui sol note
il pescator con la sua vela, getta ai flutti la sua rete
poi però può capitare una farfalla od un delfino
e il predator diviene preda di uno scherzo del destino

di quell’ali rossopinte il ragno tosto s’innamora
nonostante quella fame che da dentro lo divora

il mozzo sgarbuglia il groviglio di maglie
guizza ‘l delfino e fugge contento,
il ragno i suoi nodi con cautela scioglie
libera vola la farfalla nel vento

dopo strenuante e spasmodica attesa
veder la creatura catturata indifesa
smuove il ragno, il pescatore
che però digiuno muore

diniego enigma ghiaccio e magma

più del gelo dell’inverno
sento dentro il tuo silenzio
e mi sembra che sia eterno
e mi sballa come assenzio

il tremore mi attanaglia
quando sento la tua voce
e la lingua mi si impiglia
segue il battito veloce

mi va a foco tutto il petto
vi fiorisce un buco nero
e anche se non son perfetto
proverò ad esser sincero

l’unico motivo per cui non impazzisco nel non vederti, adesso
è che voglio starti accanto per tutta la vita, e non solo sesso

Lei

Lei è sola davanti al pc e lui ne approfitta, la fa ridere, dice qualche arguzia, cerca di capire chi lei vuole essere e al contempo inizia a farsi un’immagine di chi lui vuole che sia, inizialmente il gioco è di mostrarsi poco, diversi e migliori di quel che si è, e le prime aspettative vengono negate, distorte, lui s’avvicina ma lei si è ritratta e di colpo diventa odiosa e il sentimento, più forte del semplice interesse, che in realtà era artefatto, lo coinvolge ad un livello successivo che lui riuscirà a farle raggiungere solo quando lei, anche in silenzio, cederà: il fantastico attimo in cui la lusinga non è solo adulazione ma anche in parte verità, quando avrà colpito nel segno l’imbarazzo di lei nel riconoscersi in quel dipinto che lui ne sta facendo, le smuoverà qualcosa dentro, niente è vero se non emoziona. Il falso può emozionare ma non porterà a niente, è un gioco-presa in giro, eppure il gioco non funzionerebbe se ambedue non lasciassero intravedere la possibilità di una sua fine. Possono essere minacce di silenzio eterno, così comune tra gli umani che in realtà non dovrebbero nemmeno più soffrirne, oppure arrendevolezze, hai vinto sono tua adesso? tra un attimo sono lì e poi? che parole userai quando avrai un groppo in gola? ci scontreremo con la realtà, sei pronto? E non sei mai pronto al momento, senza lo scudo di uno schermo dietro cui puoi fingere di essere ancora indifferente, ed è bellissimo, un’angoscia inevitabile di vedere il remake del tuo sogno però vivo, che una volta condiviso è corrotto, che seppur sempre uguale è sempre unico. Nessuno trova la strada giusta al primo colpo, perchè non esiste nè la strada nè solo un colpo. Gli umani così s’intrallazzano, si confrontano e si tengono compagnia, mettono alla prova la loro abilità sociale, si presentano e rappresentano in infinite commedie per il gusto ed il vizio di farlo, per vedere dove porta e cosa comporta, per sentire qualcosa, perchè niente è vero se non emoziona.

lei si riconoscerà in quello che il mio sguardo da sempre va cercando.
lei che aveva da sempre già capito e aspettava
voleva che il mio sguardo colmo di lei, di poesia e di attesa si posasse sulle sue labbra per sgorgarne e suggerne parole e ispirazione.
sapeva che avremmo amato ancora
saprà di vedermi e coglierà l’occasione
amerà pazzamente l’amore che nutre in me
vorrà una poesia al giorno con i suoi occhi da fiaba
sentirà l’energia del mio spirito danzare con il suo
pretenderà da me di farla schiava
abuserà del mio dipendere da lei fino alla morte
mi chiederà una prova della mia pazzia in silenzio e poi riderà anche del suo imbarazzo
per lei da sempre
da lei per sempre
per lei le prime poesie con sincere pretese
per lei le ultime righe pretenziose stracciate

breve storia biobliografica dell’antropologia

1871 Inghilterra vittoriana, vengono pubblicati Primitive Culture di Tylor e Sistemi di consanguineità di Morgan.

È questa la data in cui per convenzione si fa risalire la “nascita” dell’etnografia antropologica, che in quanto studio dell’uomo e dell’umanità, delle costanti nelle diverse società, è da sempre presente nell’ homo sapiens, che si chiama così proprio per quello e che prevalse nel mondo soprattutto per la sua capacità comunicativa.

Per un interessante approfondimento vedere la mostra Homo Sapiens a Roma al palazzo delle esposizioni.

Dall’evoluzionismo darwiniano cioè delle specie, si passa all’evoluzionismo delle “razze” umane e delle loro culture.

Dopo millenni di viaggi di mercanti, guerre,  invasioni e diaspore, missionari e studiosi del genere umano attraverso le culture, da Erodoto a Cesare a Marco Polo e secoli di osservazioni riportate dalle colonie riguardo i costumi, le credenze, l’arte, le tecnologie, il diritto, i riti e le abitudini di diversissimi popoli un certo J.Frazer può, dalla sua poltrona, far uscire Il Ramo d’oro, del 1890, fantastica summa di conoscenze ordinata in un filo più logico “fatto ad arte” che temporale, in un percorso che attraverso magia e religione porta l’uomo di ogni parte del mondo dalla superstizione alla scienza .

La scienza non può che rimproverarsi per aver fallito in passato, tesa com’è verso il progressivo superarsi.

Ogni corrente critica la concorrente precedente per questioni o epistemologiche o inerenti alle visioni dell’uomo sottese alle generalizzazioni conclusive delle ricerche dei predecessori senza mai rinunciare ad una pretesa di scientificità maggiore, nel gran cammino di accumulo e critica del pensiero che è la cultura occidentale.

Boas, di formazione tedesca, in America, nel 1896,  in un articolo intitolato “Limiti del metodo comparativo in Antropologia” cerca di riportare l’Antropologia sul campo, perchè certe analogie possono essere riscontrate solo o meglio di persona e le generalizzazioni sono artefatte se le testimonianze non sono dirette, per lui è vero che le culture si influenzano, ma solo quelle vicine, altre che possono sembrare somiglianze e ricorrenze in diverse parti del globo possono scaturire da differenti concatenazioni di cause.

Ma già nel 1724 Jean-François Lafitau pubblicò Les moeurs des sauvages ameriquains, comparées aux moeurs des premiers temps studio comparativo di diverse tribù canadesi, attraverso l’osservazione partecipante e la conoscenza delle lingue autoctone, la cui religione è ritenuta dall’autore molto simile a quella greca. Studio ridicolizzato da Voltaire che d’altro canto in Canada non mise mai piede.

Nel 1897 pubblica un saggio sul Potlach, rito che ancora oggi sopravvive in molte parti del mondo con diverse forme, che si consiglia di approfondire visto che riguarda il dono e lo sperpero come funzionali ad acquisire rilevanza sociale, potere, con riferimento sia al clientelarismo romano che allo spreco di neuroni nelle serate tra amici. Un esempio del chi più ha più dia che assomiglia al “Da ognuno secondo le sue possibilità” Marxista.

Il suo può essere denominato Particolarismo, una cui deriva è il diffusionismo, una visione che mette in risalto come le culture si influenzino o mescolino “a macchia di leopardo” per vicinanza, scoraggiando gli arditi paragoni tra riti agli antipodi.

Sul continente è in Francia invece che si sviluppa un altro percorso di studi.

Tra i pionieri dell’etnoantropologia occorre ricordare una società di filosofi francesi che si istituì alla fine del Settecento: la Société des Observateurs de l’homme, fondata nel 1799, un caso interessante studiato dalla Société fu quello del bambino selvaggio dell’Aveyron cresciuto dai lupi nel 1800.

Dopo che Comte aveva postulato la sociologia come scienza e la scienza come religione, i post-positivisti della cosiddetta Etnosociologia Francese, Emile Durkheim e suo nipote Marcel Mauss pubblicano rispettivamente ma non solo nel 1912 Forme elementari della vita religiosa e, nel 1923, Saggio sul Dono; Di Gennep da leggere Riti di passaggio del 1909.

In questa “scuola” si cercano gli universali attraverso sistematizzazioni scientifiche dei dati con un rigoroso metodo sociologico, in cui i Fatti Sociali, collettivi, condivisi, hanno potere costrittivo (Parallelismo con la filosofia del linguaggio del circolo di Vienna?) . Un esempio è Rappresentazione collettiva della morte, 1907 Herz: la morte è uno scandalo, un fatto sociale che richiede un rito per ripristinare l’equlibrio: già nelle Storie di Erodoto V sec a.C. ,del resto si paragono gli usi funebri di popoli diversi, Greci e Galati per sottolineare l’universalità delle usanze ma al contempo le differenze nelle modalità. Curioso il fatto che ancora nel ’04 in Francia era possibile sposarsi con un morto.

Contemporaneamente a questo slancio scientificista che calcola la media delle credenze comuni per definire cos’è la coscienza collettiva, dalla Gran Bretagna partono nuovi input per un ulteriore avanzamento metodologico.

Il Funzionalismo “Britannico”( i suoi componenti sono rimasti ben poco nel Regno Unito) introduce l’aspetto di società come organismo organizzato dal funzionamento olistico, la cultura è vista come uno strumento per soddisfare dei bisogni primari e il lavoro sul campo fieldwork diviene necessario, perché lo strumento in più che lo scienziato-viaggiatore ha, è l’Osservazione Partecipante. Per capire al meglio la realtà studiata bisogna assumere il punto di vista dell’indigeno, un punto di vista emico che senza la conoscenza della lingua locale o almeno un pidgin non è possibile.

1922, Londra, Malinowsky, di ritorno dall’oceania, pubblica Argonauti del pacifico occidentale, frutto del lavoro di anni sul campo, volente o nolente completamente isolato. Nello stesso anno Alfred Radcliffe Brown pubblica The Andaman islanders. Ad oggi molti archeologi e antropologi sono proprio discendenti delle tribù superstiti, è di ottobre 2011 la notizia dell’incontro con una tribù “vergine” ,che non aveva mai avuto contatti con il mondo esterno.

In Italia è solo dopo la seconda guerra mondiale che, liberati anche dalle concezioni razziste che impregnavano la cultura imbrigliandola in stereotipi volti a spiegare la superiorità degli italiani giustificando il colonialismo imperialista e le leggi razziali, si sviluppa la Demo-etno-antropologia di De Martino, allievo di Croce, secondo cui non è un antropologo solo che deve condurre la ricerca bensì una squadra di esperti in differenti campi: sociologi, psichiatri, folkloristi e linguisti con l’ausilio necessario di tecnologie quali il magnetofono o la cinepresa.

Il percorso stesso della storia dell’antropologia è, per così dire, esplicativo della sua stessa scientificità.

Ciò vale a dire che pur con la consapevolezza che l’uomo è una variabile irriducibile, le fasi della ricerca e della storia di essa tendono ad una sempre maggiore scientificità con sempre maggiori precisazioni: le differenti scuole di pensiero che si sono succedute non sono da vedersi semplicemente come contrapposte tra loro ma come parte di un cammino unitario. In questo caso si parla di Catallassi, parola greca traducibile con il cum-petere latino, ovvero l’aspetto positivo della concorrenza, della competizione, cioè il tendere verso qualcosa insieme.

L’intero percorso somiglia al metodo scientifico che teorizza prima, si pensi all’antropologia “da poltrona” evoluzionista, poi sperimenta sul campo che è il laboratorio dell’antropologo, per infine, una volta rilevate le strutture e le loro funzioni tornare “a casa” per cercare di tirare le fila e generalizzare il meno peggio possibile grazie all’uso regolativo dei concetti affinché il ragionamento sia replicabile, la falsicabilità soprattutto quando si parla di soggetti umani è imprescindibile.

Ogni scuola criticando quella precedente non fa che partire da essa, ogni corrente fatica a riconoscere e a mettere tra le premesse del suo ragionamento il background da cui sfocia, fino all’osservazione della partecipazione o “all’osservazione osservata dell’osservatore” della Barbara Tedlock che è ciò che Husserl introduce nella filosofia, l’epochè fenomenologica.

Il ragionamento di Husserl nella Crisi delle scienze europee mira a rendere sempre evidente anzitutto che l’osservatore è parte del fenomeno che osserva, che il contenitore è sempre contenuto nel contenuto, in un certo senso è ciò che in statistica si chiama effetto Hawthorne cioè l’imprevedibile perturbazione che la rilevazione avrà sul campione osservato, che quando è un umano, avrà reazioni improbabili da prevedere, ma quando è addirittura una società, calcolare gli effetti del fatto di sentirsi osservata sarà a dir poco impossibile.

Non importa più soltanto, e nemmeno soprattutto, la mole di dati raccolti sul campo, perché come dimostrano le critiche mosse da Freeman alla Mead, senza un metodo valido che sia anch’esso oggetto dello studio del ricercatore la ricerca non ha senso, non solo non è replicabile, cosa semi-impossibile anche solo per il naturale sviluppo nel tempo di una cultura, ma senza controlli è puro e semplice frutto della mentalità dello studioso applicata ad una certa situazione.

Ad esempio una giovane idealista Boasiana probabilmente dopo aver letto Rousseau alla sua prima esperienza sul campo, cercando di criticare la sua cultura ha voluto trovare proprio quello che cercava, cioè che esiste un posto bellissimo dove non hanno remore sessuali e dove l’adolescenza femminile non è traumatica come quella che lei deve aver vissuto nel suo mondo crudele e maschilista. Ma il ritornare sul campo è un ulteriore passo verso una maggiore critica della scientificità dell’ antropologia, infatti nemmeno lo stesso ricercatore a distanza d’anni con i suoi appunti in mano riscontrerà la stessa realtà.

Ma una volta attraversate le diversità, raccolte una mole di informazioni notevole, sotto più punti di vista, etico ed emico, scientifico e umano, l’antropologo deve tornare nel suo studio e fare il secondo step dell’etnografia, produrre documenti, rendersi conto che se le varie etnie ben separate e quasi isolate hanno tratti culturali comuni, un inconscio strutturale comune o anche solo una struttura che risponde a dei bisogni primari identici, le culture mescolate nel nostro mondo avranno carattere più individuale, ognuno sarà un aggregato stratificato di culture.

È  in questa direzione che punta il relativismo culturale, visto che i processi migratori non si fermano, ed è una fortuna che il processo sia pacifico, è necessario spiegare a tutti di generalizzare il meno possibile, di “naturalizzare” il meno possibile, se alcune persone rubano non è perchè è nella loro natura, è perchè nella nostra realtà le loro condizioni li spingono a farlo. Rubare è una cultura? Sul perchè rubare è illogico se non disumano rimando al saggio…link

Una volta che le identità culturali se non propriamente ancora mischiate sono vicine e comunicanti è inevitabile che in alcuni individui si rafforzino e che altri invece si aprano al diverso e al cambiamento.

È in questo senso che Remotti riprendendo Levi-Strauss, intende che ogni essere umano ha una sua cultura, è giunto il tempo in cui l’identità culturale uno se la sceglie, l’inculturamento non è più un fattore passivo da parte di un istituzione stabile e unica ma il singolo può paragonare ciò che ora gli sta vicino anche se è nascosto da pregiudizi e tacciato di non essere “naturale”, e fare le sue scelte. Quante religioni, sette, ceppi linguistici, etnie (da considerarsi strettamente relato all’aspetto esteriore, ai tratti somatici tipici) sono presenti e cooperano in Italia?

Ed è a questo punto della riflessione che entra in gioco il leghismo.

Questo movimento politico che ha come suo scopo creare un nuovo stato è perfettamente conscio che per farlo deve prima creare senso d’appartenenza e quindi d’esclusione, deve creare e diffondere l’idea che esista non una “razza” perché sarebbe nazismo, ma un’identità culturale profondamente diversa da quella italiana o europea.

Ora come intenda farlo non è difficile da capire, è sotto gli occhi di tutti: sfruttando il razzismo che prolifera nelle valli chiuse dove gente troppo vecchia o troppo povera non ha mai viaggiato, sfruttando quindi le paure ataviche verso il diverso, o anche solo verso il simile concorrente per un posto di lavoro, e in un altro modo, cioè proponendo nuove tradizioni, cercando cioè di creare anche attraverso una rilettura della storia, un’identità culturale.

Ma quali elementi in comune hanno e potranno mai avere la Liguria e le valli bergamasche? Che ne è dell’unità linguistica necessaria per creare uno stato unitario? La storia della Val d’Aosta in che modo può confluire in un’entità statuale con quella che fu la Repubblica di Venezia, se non nella già esistente Italia?

La lingua comune della Padania è l’italiano, la storia comune è quella dell’Italia, almeno fino ad adesso, ma ciò non basta a fermare i leghisti, che anzi creano. Creano riti nuovi, ridicoli per chi li vede dal fuori ma evidentemente coinvolgenti e simbolici, cercano di confondere la popolazione mischiando informazioni e culture, si dicono discendenti dei celti ma sono di retaggio cristiano: avendo come scopo la chiusura politica hanno come mezzo la chiusura mentale.

Un elemento fondamentale della loro immagine è infatti la “genuinità” che giustifica l’ignoranza, il loro linguaggio non è “populista” è grezzo. Ma le etnie esistono, come dice Fabietti, al di là dell’uso regolativo di tale concetto, esistono per chi ci crede, ed emergono quasi esclusivamente per creare scontro e non confronto.

Degli immigrati che non vogliono altri immigrati per integrarsi o per interesse personale acquisito è addirittura superfluo parlare, hanno assimilato la parte peggiore della mentalità capitalista, che contribuiscono a mantenere.

Dell’uso a sproposito di certe definizioni antropologiche fa certamente parte un cartellone elettorale esibito durante l’ultima campagna elettorale con un capo indiano dipinto e una frase che suonava “loro hanno subito l’immigrazione, adesso vivono nelle riserve”. Paradossale, paradossalmente proprio per questo un’ottima pubblicità, un messaggio indelebile. Questo è l’esempio per eccellenza di estrapolazione di un concetto dal suo contesto, concetto che suscita empatia: “poveri indiani io quand’ero piccolo leggevo tex willer e coi miei amici facevo sempre l’indiano”. Paradossale perchè la situazione è inversa, in quel caso erano i cowboys, più forti, a invadere e non semplicemente ad emigrare come oggi pacificamente fanno i più deboli dalla povertà verso la ricchezza. Paradossale anche perchè la soluzione proposta, ad un diverso problema anzi al suo inverso, è la stessa. Lo scontro, la guerra, sappiamo che adesso siamo noi i cowboys e allora teniamoli fuori. Ma con ciò non si esaurisce l’assurdità implicita nel messaggio, infatti il tener fuori gli altri significa rinchiudersi da soli nelle riserve, il messaggio può dunque far votare per la lega solo gli analfabeti che non sapendo la storia degli indiani che forse da un paio di numeri di tex willer e simpatizzando per quelli che avendo le pistole possono sostenere un assedio.

Per ingannare il tempo

Dacchè troppo spesso e frequentemente è il tempo ad ingannarvi, mi propongo, senza secondi fini, di accompagnarvi in uno sventato e ardito ragionamento con il quale vi condurrò, se vi permetterete di percorrerlo senza remore nè preconcetti, ad obliarvi in esso fino a scordare l’eterno metronomo sprofondandolo affogato nel Lete. Obiettivo: sedare l’omino che sta al computer nel vostro cervello, quello che calca il palcoscenico dietro il sipario che vela i vostri occhi, lo farò calare in un limbo abissale in cui echi antichi di ditirambi rimbombano tra i timpani nell’anfiteatro dolby surround della vostra mente. Se altri vi guidò nella selva di sfere stereotipate di ciò che vi hanno imposto come vizi e virtù io vi dò una traccia, orma dell’ombra che mi perseguita, la ricetta di uno stratagemma per ignorare fino ad escludere quello scrosciante mormorio incessante, stridulo acuto et gravoso fardello che opprime e d’oro incatena lo spirito vostro. Financo voglio chiudervi a doppia mandata nell’angoscia in voi stessi sicchè possiate affogarvi quella favella che instancabile vi assilla, soffocarvi la voce dal buio eterno dietro che avida e vorace rammenta cantilenando ad ogni secondo un secondo in meno. Preparatevi, tenetevi strette le vostre care vecchie cattive abitudini, strette fino a fare male e lasciatevi nel vuoto, perchè è nell’ozio più totale che ci raggiungeremo.

Ancora un anelito, uno spasmo quasi involontario mi fa sussultare, ogni possibile azione in un tremito mi schifa, conato cosciente di un falso proposito, mi disgusta la stessa inedia in cui mi sprofondo e la reazione è uno scatto che i nervi trasmettono in un brivido. Un nodo alla gola m’ingolfa d’odio verso me stesso, la noja mi stritola ma rimando svogliato l’impegno impellente, bisogno di fare qualcosa, di superfluo, nemmeno uno stimolo mi scuote dal torpore apatico in cui mi lascio rinchiuso, solo il barlume di un verso a riportare la rabbia a fior di pelle, uno sfogo catartico, in un attacco di nevrosi mi contraggo impulsivo. L’insoddisfazione compressa nel senso di vuoto che mi lascia attonito a bocca spalancata protesa ad afferrare in un bacio il niente che mi scatena un’acquolina sadica di acido, eppure per inerzia non riesco a placare la voracità dello sguardo che pesca nel vorticoso limbo senza tempo dell’immaginazione che corre corre corre sempre più forte… si beh anch’io parlo da solo talvolta, sì, ma cosa diamine sto leggendo? mi sento una cavia in un esperimento invadente e nessuno ha chiesto il mio consenso, adesso stacco lo sguardo…va beh, non mi farà dire che sono un pirla a meno che anche lui l’abbia pensato…

è il paradosso dello stronzo che scrive scemo chi legge, ma quanto è malato sto tipo che parla di sè in terza persona nella mia testa? cosa vuole ottenere? almeno dicesse qualcosa…

Sono l’attore, che si svela in una specie di psicomonologo silenziosamente interiore ma invero al contempo esclusivamente pubblico, come se mi stessero facendo rileggere un copione, lasciandomi lo spazio per immaginarmi d’essere al contempo lo scenografo il coreografo e il pubblico, o seguire una traccia incisa su di una stele antica, un percorso eroso diluito dal tempo eppure già battuto e riavvolgibile che ogni volta ha il potere immenso di suonarmi divino con una tonalità sempre diversa,una melodia sulla quale lasciarmi libero di ricamarmi qualche pensiero Mio, mi pare di sentirmi la Sua voce, la voce del qualsiasi lettore e quella del regista si sovrappongono in uno scambio di ruoli che è una danza per gli occhi. Si perde sempre di più nel chiunque ad ogni modo se solo riuscissi dunque a fermarmi dove vuole ovunque perché vuole farmi sapere di avermi riempito di getto senza virgole come senza prender fiato per non essere trascinato fino in fondo precipitare con lui nell’abisso impossibile di una scelta passata che abbia pensato ad ogni possibile reazione, che voglia confondermi? “sei uno strumento” lapidario e senza un contesto, ma anche no.

-schermaschera-

1autocritica per conto di terzi on marzo 30, 2008 said:

Il vorticoso audace circonfluire non poteva trovare migliore riscontro che nella fluente liquefazione grafica vertical finale. Inevitabile il disgustoso rancido retrogusto, per soli palati sopraffini. Sopraffina liberazione gastrointerinale. Poetica dello sbocco, avanti tutta a getto leggero. “Non ricordo cosa stavo pensando prima di pensare che porcodio non ricordo nemmeno A cosa stessi pensando eppure era vivido e logico, lucido e corretto..” come le sfumature e i confini di un sogno appena svegliato disciolte con tutto l’amaro in bocca di un mondo morto sconvolte le orbite ma ecco mi balugina l’alone di un concetto qualcosa di sospeso non ancora cancellato ma irripetibile. ecco con la scrittura a volte si riesce ad imprigionare uno stato o un impressione, e il verso è un richiamo, un gesto ad indicare un fotogramma passato, chi ancora impara non potrà liberarsi dell’ altalena nel vuoto. questo modo di accennare è il meno pretenzioso seppur roboante, illude di svelare la sua stessa ironia ma solo abbozzando un conato “circonfuso di nube indecorosa”. è un continuo aggrapparsi ad altro disegnando varchi, rubando la tecnologia alle scimmie e disseppellendo oro nero dare continua energia al motore del consumo.

autocritica per conto di terzi on aprile 2, 2008 said:

Niente azione, pura contemplazione, lo scrivere mette davanti a una scelta infinita, le strade percorse non sono mai chiuse anche se è sempre impossibile restare nelle stesse orme. è questa immobilità che viene esasperata in quello che non è un racconto in quanto non accade nulla.  Fin dall’inizio è financo troppo falsamente chiaro che lo svolgimento e il risultato sono vòlti a consumare il tempo col pensiero. Infatti spero si capisca che il fulcro del circonfuso tentativo è l’ultima parte a spiovente che seppur non curata nel ritmo è scrosciante. Il solo monologo finale però, fine a se stesso, non avrebbe significato niente di nuovo, sarebbe stato un esperimento riprodotto per riprovare che la voce che detta e quella letta sono sovrapponibili e inscindibili, un puro esercizio stilistico che avrebbe si instillato qualche scintilla nei più bendisposti lettori ma sarebbe stato insipido e fuori contesto come la conclusione dichiara: scrittura è voce impersonale in quanto di ognuno. L’incipit con l’esternazione dell’intento doveva essere però connessa al confusivo sproloquio finale attraverso un piano trasversale e parallelo al contempo. Intermedio o ulteriore che sia questo livello connettivo avrebbe dovuto avere un tono differente per sottolineare la cesura rispetto la parte precedente accessoria ma questo non è riuscito. Se non percepibile nello stile questo salto intermedio è sottolineato dal passaggio ad un solito e vago io narrante che però cessa di rivolgersi al lettore e invero smette ogni altra attività, come se la volontà espressa nelle prime righe comportasse inevitabile dei postumi angoscianti e l’immobile tendere contro l’impossibile. è questa incapacità che incanala a grandi brucianti sorsate la perplessità nel ventre dell’inutilità, dell’inedia, ma non si limita a questo banale voler rendere una sensazione gettandovi il lettore: questo vuoto interiore è la frequenza su cui si sintonizza l’io che non più diviso da propositi di alcun genere tende ad immedesimarsi in chi scrive. Inevitabilmente quantomeno s’ incrocia lo sguardo cercando di stimolare l’empatia necessaria a coinvolgere e a farsi seguire nel più fastidioso monologo successivo. Osservazioni di altri: – altri guidò: perchè un plurale e il verbo al singolare? chi compie l’azione è uno: il solito Dante che però dice di esser condotto da altri, dallo sherpa Virgilio piuttosto che dalle droghe sintetiche o dalla pura figa (insomma un pò di blasfemia e sperimentazione, evoluzione perdio e anche come dice storiemoderne Devianza). – l’et non si può proprio sentire… cara Silvia le cazzate sono scritte per esser notate, insomma qualche assurdità è solo il condimento per farvi dilettare nel criticare, tra l’altro è un accenno ad un possibile chiasmo che sfumerebbe di poco il significato dell’ acuto e quindi creerebbe un ossimoro, insomma è un tranello per lasciar il pensiero perdersi in ciancie. – Dopotutto in pochi hanno letto questo racconto e questo commento è davvero troppo lungo ed arzigogolato perchè qualcuno arrivi fino in fondo, quindi posso anche dire che il diamine era probabilmente un porcodio per molti, magari più facilmente un: “ma che cazzo sto leggendo?!” – Si anche mettere il nome proprio di un fiume tanto per fare quello che dorme al laboratorio di mitologia è una cazzata, un fottuto fregio barocco, dorato da far venir quel voltastomaco.

la temporaneità del temporale on aprile 12, 2008 said:

Fondamento della storia e della storiografia autentica di voi interpreti è stata la comprensione del pensiero: è già il futuro ed è già il rimpianto e la venerazione delle possibilità non avveratesi ma che avrebbero potuto e delle conseguenze future della vostra continua e perpetua potenza di scegliere: è la temporlità l’attimo dopo quest’obsoleto percorso metafisico. Non è nè il presente in cui vi hanno detto di vivere, nè il passato, nè il futuro. Al tramonto “IO NON POSSEGGO ALCUNA DOTTRINA E IN PIù FACCIO FATICA AD ESPRIMERLA”

malagrida on aprile 20, 2008 said:

Letteratura o terapia letteraria, tecnica o emotività, un soliloquio infine. E i lettori cosa guadagnano dalla lettura? Ognuno ha i propri mostri nell’armadio, e non più le armi per sparare ai passeri e alle pernici nel bosco, e vuole a tutti i costi renderli pubblici esibirli, nel girone delle atrocità addobbato come un supermercato. E perchè no? Eliminare la critica sarebbe come eliminare la proprietà privata, un mondo equo che nessuno, nel profondo della propria natura animale, vuole. Ma sai che ti dico, creare personaggi, profili, descrizioni di ambienti e situazioni, intreccio, intreccio, intreccio. Basta con le memorie dal sottosuolo, uno stile che non sia sfogo ma omaggio al sublime capace di colorare il percettibile delle numerose sfumature che offre la vita.

Nebula

Da molto prima che incominciasse la storia, sfuocato nella memoria di generazioni dimenticate, senza per questo aver perso nell’immaginario comune la vividezza della vita di tutti i giorni, l’odio aveva continuato a prosperare, sotterraneo come lava raccogliendosi nelle azioni abituali, pronto ad esplodere senza preavviso, come il capriccio di un bambino. Nessuno ricordava l’inizio di quella sciagurata guerra e per questo da ambo le parti v’era la certezza che la ragione fosse prerogativa del proprio popolo e i torti subiti fossero scaturiti dall’altrui arroganza, non certo da malintesi ingigantiti e da biechi interessi di entrambi. Se nessuno ricordava la scintilla che aveva fatto traboccare l’odio facendolo straripare nella più grande guerra di sempre, era però noto a tutti com’essa s’era conclusa, poiché la vita da quel momento in poi era stata scandita proprio in funzione di quest’avvenimento che lasciando lo strascico invisibile su ogni piccolo particolare, aveva finito con l’essere onnipresente, quasi la vita fosse diventata un rito di commemorazione di quel singolo evento da cui nulla poteva sperare di nascere. Se la guerra era infatti finita in sostanziale parità, cioè senza lasciare un bilancio di morti che i due contendenti potessero considerare positivo, dopo gli armistizi, nonostante il susseguirsi di faide e vendette private che i più evitavano di notare per non dover ricominciare quella guerra così difficilmente chiamata civile, si era instaurato un regime d’immobilità che per congelare l’astio aveva finito col dividere ancor più i due popoli. La soluzione che era stata adottata era infatti di evitare scontri, confronti e contatti di alcun tipo mediante una separazione netta. Dapprima venne drasticamente decretata la spartizione del globo, un popolo a nord e uno a sud. Inutile dire che, oltre a non avere forze né volontà di lasciare le proprie case e i propri morti per migrare, i due popoli si accanivano con i profughi isolati, indifesi, cercando di mondare la terra col sangue nemico e in alcune zone attuando una pulizia etnica nel tentativo disperato di eliminare il problema eliminando sommariamente il diverso. Quando, dopo anni di silenziosi scontri e sparizioni, con uno scandalo che coinvolse le alte sfere di ambo gli emisferi, venne fatta luce sulla barbarie che dilagava a causa di una tanto stolta decisione, un uomo fino ad allora considerato folle per via della sua bizzarra e malsana idea di essere super partes propose una spartizione ancor più radicale. Questo antropologo misantropo fu il fondatore di un nuovo ordine, dove tutti gli altri avevano fallito lui solo, con un’idea geniale perché pazzesca, riuscì a placare l’odio ormai stanco dei due popoli ormai distrutti. L’assurdità della sua idea e lo stato pietoso in cui versavano i due acerrimi nemici stravolti da tanta insensata crudeltà furono i motivi per cui essa si rivelò tanto funzionale. Avendo fallito nello spartirsi geograficamente il globo egli brillantemente studiò e suggerì loro come spartirsi il tempo. Da quel momento esatto i due popoli per evitarsi avrebbero dovuto semplicemente alternarsi, uscire allo scoperto solo quando gli altri fossero stati in casa, dividersi le ventiquattrore per non vedersi e non rinfocolare così vecchi dissidi e non causarne di nuovi. La decisione era inoltre agevolata dal fatto che i due popoli erano per natura l’uno più adatto alla luce del giorno e l’altro, al contrario, alla notte. I nottambuli, alla vista più pallidi, tendenti all’albinisimo, avevano da secoli sviluppato un’innata capacità di vedere al buio probabilmente perché dei loro progenitori, vivendo in caverne e cunicoli sotterranei, avevano sforzato maggiormente quell’attitudine piuttosto che altre, e la loro vista, al sole, era tanto debole e provocava loro una tale emicrania che non furono affatto scontenti di riunciarvi per sempre. I diurni, occhi azzurri e pelli bruciate da sempre, sensibili al freddo notturno e inquietati dal buio, non si lamentarono dal canto loro di non dover più sopportare la vista di esseri emaciati, il cui pallore era un gran fastidio per gli occhi a cui parevan così cupi e misteriosi. Da due generazioni i popoli si evitavano accuratamente, avendo deciso che alba e tramonto sarebbero stati il limbo, la terra di nessuno a cui ambedue avrebbero rinunciato, era assai difficile che si incrociassero. Per lo strano meccanismo intrinseco alla natura umana per il quale però le cattive abitudini sono restie al lasciarsi abbandonare, serpeggiava sempre e comunque il malcontento e il vociare maligno riguardo al diverso, seppur ormai sconosciuto, s’insinuavano ovunque condendo ogni avvenimento. Così se una volta per un’emergenza qualcuno sforava e invadeva il “terreno” altrui, ne usciva una questione di stato, di capitale importanza che si protraeva per giorni e che alimentava il risentimento che i due popoli ormai sconosciuti l’uno all’altro covavano nonostante tutto. I racconti di guerra si facevano più vaghi e per questo i due popoli potevano attribuire maggior onore a se stessi e peggior infamia all’altro, le nuove generazioni in tutto questo crescevano in un clima di sospetto indifferenziato per qualcosa di ignoto, maturavano in un ambiente carico di maldicenze e leggende, di stereotipi e luoghi comuni che per il fatto stesso dell’inavvicinabilità del diverso sarebbero sempre rimasti tali, e sarebbero stati accresciuti da qualsiasi accadimento. Il risentimento e l’invidia, la nostalgia per quella fetta di orologio perduta e intoccabile erano il pane quotidiano della povera Astrid, cresciuta in una famiglia di nobili origini ma limitate vedute, a cui i genitori avevano dato un nome che a dispetto del suo aspetto, quasi bruciacchiato dal sole, invocava il tremolante baluginare dei tanto compianti forellini che il lenzuolo della notte, ormai identificato con il buio del sonno, non mostrava più loro. Nonostante fosse nipote di quel folle responsabile del “taglio dell’orologio” era una ragazzina introversa e cupa, a cui piaceva star sveglia fino a tardi e spiare l’oscurità che amava fotografare, senza tuttavia esserne davvero capace. La sua passione era resa addirittura impossibile dalla mancanza di flash, proibiti dalla legge diurna e peggio severamente vietati dai genitori, che cercavano anzi di soffocare quella sua mania che ricordava loro i geni del nonno, rinchiuso in un manicomio perché incapace per primo di sottostare alle sue stesse idee. Il nonno aveva infatti dato prova di enorme squilibrio qualche anno prima cercando di insegnare alla nipotina i nomi delle costellazioni portandola con sé in illegali escursioni notturne. Quando l’avevano sorpresi, sulla barchetta del nonno, questi aveva farfugliato che quella legge era il drastico provvedimento, l’unico possibile vista la situazione, ma che valeva ben la pena fare eccezioni per persone speciali e che lo stesso luogo dove l’avevan trovato era come un’isola sulla quale lui aveva l’impunità e altre fandonie che non convinsero i nottambuli che credendolo uno spia lo denunciarono ai diurni i quali sapendolo pericoloso decisero di internarlo. Al vecchino, ormai ritenuto innocuo, dopo qualche anno di reclusione venne proposto di tornare dalla sua famiglia. Ma in manicomio, nel quale poteva decidere che ritmi di vita avere, se vivere la notte o il dì e dalle cui finestre osservava curioso dei flash squarciare il buio, si trovava tanto bene che non volle uscirne, maledicendo anzi quella famiglia che a suo parere l’aveva condannato e rimpiangendo solo che la nipotina fosse amputata della notte anche a causa sua. Si sentiva colpevole di averle rovinato un futuro, di averla privata della possibilità di vedere il tramonto e le fasi lunari, era in qualche modo sua la responsabilità dell’estremizzazione della situazione. Nel manicomio inoltre aveva conosciuto uno squilibrato piuttosto ragionevole dell’altro popolo col quale aveva stretto amicizia per la strana legge che fa si che i reietti di due popoli nemici, odiati ed estromessi da queste società, trovino spesso argomenti in comune e mutuo soccorso, non solo per compagnia ed empatia ma proprio per caratteristiche personali che li hanno portati nella stessa situazione affinché s’incontrassero, che non voleva per nulla lasciare, senza la cui presenza si sarebbe sentito perso. Questo personaggio affatto malato era rinchiuso per ragioni consimili: dopo aver denunziato infatti gli orrori non solo non arginati da qualche generale del suo esercito durante la grande migrazione, ma anzi promossi e condonati era dapprima passato come eroe ma dopo poco, complice la sua testardaggine nel voler continuare l’opera di pulizia dalla corruzione, era stato tacciato di schizofrenia e gli era stata diagnosticata una mania di persecuzione grave la cui unica cura era la prigionia. I figli di questo grand’uomo lo avevano addirittura misconosciuto, gli avevano da sempre interdetto l’uso della loro abitazione e per questo se anche avesse potuto uscire dal manicomio non avrebbe fatto altro che condurre una vita da randagio alla quale proprio non teneva, per questo restava volentieri accanto all’inventore del “taglio dell’orologio” e con lui guardava nel vuoto della notte verso i flash che con la vista abituata riconosceva come quelli di una macchina fotografica mentre l’altro con gli occhi quasi bianchi colmi di follia credeva essere lucciole o scoppi di stelle. Gli anni passavano e nella memoria di Astrid il ricordo del nonno s’andava affievolendo mentre la curiosità aumentava; delle volte giocando sulla spiaggia con la sua macchina fotografica e le fotografie s’inventava storie, quasi sempre ambientate di notte, fin quando il cielo s’arrossava e i genitori la richiamavano a gran voce, che corresse prima che scattasse il coprifuoco. Una sera che s’era trattenuta sulla spiaggia più a lungo del solito all’ombra fresca di una palma, appisolatasi con un’espressione beata sul viso abbronzato, la madre imbufalita dalla preoccupazione la venne a svegliare e la portò ancora insonnolita a casa di forza dal padre pronto a farle l’ennesima ramanzina. Nella fretta la madre non aveva raccolto le fotografie dalla spiaggia e aveva danneggiato la macchina fotografica trattandola senza la cautela dovuta, inutile dire che quella notte Astrid non riuscì a prender sonno e maledisse la sua famiglia, il suo popolo e quell’assurda situazione che le impediva di andare a riprendersi le sue care fotografie. Quale non fu l’orrenda sorpresa quando all’alba non trovò più le sue foto! Tale scoramento era ingigantito dalla momentanea impossibilità di farne altre e dal vedersi quindi privata del suo passatempo e dei suoi gingilli. Dopo l’abbattimento iniziale si sdraiò esausta sotto la consueta palma fantasticando su chi mai avesse potuto compiere quel furto inutile. Si diceva che l’altro popolo fosse ladro per natura, ma che interesse poteva avere un nottambulo nel prendere fotografie luminose, solari, di un mondo che non gli apparteneva? Rivoleva così tanto le sue fotografie ed era tanto disperata che decise di appostarsi, incurante delle raccomandazioni dei genitori e della legge stessa, per aspettare e scoprire chi fosse il ladruncolo. Ogni giorno tornava all’alba sul posto ad osservare le orme, sempre le stesse, dilaniata dalla curiosità e dal bisogno di riavere quelle immagini che ritraevano il suo mondo ma anche una parte di lei. Escogitò uno stratagemma rischioso, avrebbe usato le sue ultime fotografie, le più care che aveva, come esca, certo se le avesse perse la sua vita non avrebbe più avuto senso e si sarebbe gettata alla cieca nella notte alla loro ricerca. Incerta sulla riuscita però tergiversava, ogni giorno s’attardava un minuto di più a guardare il tramonto e solo quando il sole toccava il mare all’orizzonte correva a casa, senza lasciare le preziose foto, troppo timorosa di perderle. Decise di scrivere un’eloquente e sentita supplica sul retro delle foto, che rappresentavano gli ultimi squarci di un mondo senza le quali non avrebbe più potuto vivere, le venne davvero bene, strappalacrime all’inverosimile, il che la convinse ad attuare il suo progetto. Quella notte, lasciate le foto nel solito posto, una volta coricatasi sognò una vòlta stellata e la luna turca che come una palpebra sembrava si stesse aprendo lasciando sgorgare i segreti racchiusi nella notte, aveva legato le foto e messo un rozzo antifurto di barattoli, certa che al buio chiunque ci sarebbe cascato e l’avrebbe svegliata, e si svegliò al sentirli ma solo in sogno, cogliendo con le mani nel sacco suo nonno diventato bianchiccio e tutto bardato per sopportare il freddo della notte, dopodichè vide un flash e si ritrovò nel manicomio in cui peraltro non era mai stata sentendosi sperduta avrebbe voluto gridare, ma invece che far uscire alcun suono dalla sua bocca, fu lei ad uscire dal sogno, senza tuttavia sentirsi sollevata, avrebbe voluto chiedere al nonno cosa significava il sogno e che posto era mai quello dove l’aveva portata, giacchè non sembrava normale affatto. Era da mesi che si sentiva cambiata, si sentiva diversa da quelli del suo popolo che non facevano che sparlare abitualmente di qualcuno che non avevano mai visto e da cui non avevano subito alcuna angheria, lei che invece era stata derubata non si accaniva né tantomeno andava in giro a dar forza a quelle dicerie assurde, pur essendo l’unica ad esserne in diritto, la faceva andare in bestia la normalità con cui per partito preso, per ignoranza, la sua gente moltiplicava le voci e faceva sembrar vere antiche leggende. Così come i nottambuli potevano esser chiamati sozzoni perché, ritenuti ciechi, non avevano bisogno di togliersi lo sporco e il fatto che andassero in giro coperti per il freddo non significava certo che avessero da nasconder alcuna bruttezza, così come loro che andavano in giro seminudi al sole potevano esser chiamati selvaggi dal punto di vista degli altri, così a parer suo erano tutte assurdità. Quanta gioia l’indomani, quando, spazzati via tutti questi pensieri come foto nel vento, rivide da lontano le sue amate foto al loro posto, si sentì sollevata, quantomeno il fallimento non era stato totale, nessuno nella trappola ma almeno i suoi fogli colorati erano ancora là, ad aspettarla. Ma avvicinatasi e prese in mano le sue care immagini per coccolare i suoi occhi con i suoi ultimi tesori, non ci poteva credere, non ci voleva credere, quale fu la delusione e la sorpresa nel constatare che non erano le sue. Impallidì lasciò cadere i fogli e iniziò a gridare, alcuni diurni che la sentirono credettero fosse il segnale del coprifuoco e rincasarono in fretta e furia. Non era possibile, qualcuno le aveva sostituite, con ogni probabilità quello stesso qualcuno che le aveva rubato le altre, ripresasi dall’attacco di nervi che l’aveva còlta, si distese, non accorgendosi che qualcuno da lontano l’osservava, senza sentire l’inconfondibile susseguirsi quasi rabbioso di scatti che come un metronomo impazzito dal ritmo bizzarro la prendevano di mira di nascosto, e dopo aver guardato a fondo quelle foto non sue, s’appisolò. Quando iniziò a sognare quella persona misteriosa che era entrata di soppiatto nella sua vita, che possedeva ora le sue poesie, la parte più intima di lei e quella storia avvincente che stava scritta dietro e nelle fotografie lo immaginava bianco come la luna, con negli occhi il vuoto infinito della notte, oscuro e misterioso, probabilmente aveva anche il flash!!! A quel pensiero si svegliò di soprassalto, guardò le foto e capì cosa fin da subito l’aveva stregata, le inquadrature, i soggetti, erano i suoi, erano gli stessi che lei aveva immortalato, solo con un’altra luce che li faceva apparire più irreali, come mai lei avrebbe potuto vederli. Questo la sconvolse a tal punto che quasi il cuore le traboccò di gioia, qualcuno le era entrato nei pensieri e aveva esaudito i suoi sogni, qualcuno che stava poco lontano e sorrideva da dietro un obiettivo, ma chi era? Chi poteva aver capito così bene quello che desiderava più di ogni altra cosa? Decise di aspettarlo fino al tramonto, fosse anche stata la cosa più avventata e pericolosa, poteva essere un maniaco che la voleva irretire, perché no? Con tutte le voci che circolavano…tutte le voci, si disse, tutte le voci sbagliano si convinse, chi aveva penetrato il suo segreto non poteva che essere un animo nobile, qualunque tonalità di colore la sua pelle avesse e ferma più che mai nelle sue intenzioni restò a guardare il sole scendere fino a sfiorare il mare. Lei stava lì di spalle, era già suonato il coprifuoco e una fetta di sole era già sparita, quando Nebula, questo era il nome del ragazzo e come avrebbe potuto essere altrimenti?, si decise a muoversi, e le andò incontro, quasi seguisse la penombra, quando il sole era proprio a metà sulla linea dell’orizzonte e il cielo stava sfogando i suoi colori più belli, quasi consapevole che per la prima volta da anni qualcuno lo stava ad osservare, egli si sedette in silenzio al suo fianco. Lei non si mosse finché il cuore non smise di sbatterle in petto facendola tremare, solo allora si voltò e sorrise.

La storia potrebbe esaurirsi qui, con questa immagine istantanea di rare felicità e libertà in un mondo diviso, senza albe né tramonti e questi due giovani con tutto il futuro davanti per cercare di migliorare le cose, quasi fossero i pallini dello yin e yang che volendo unirsi per colorare tutto il resto, con un semplice sorriso ispirassero speranza. Ma non è così che è andata, una volta calata la notte infatti, spenta finalmente la vista abusata, Astrid vide una luce accecante e la luna e le stelle e cercò di saziarsi di sorrisi, sussurri e baci e tutto vorticava finché un riflettore, che agli occhi nottambuli di Nebula apparve come una nube, li inquadrò e li strappò al loro sogno, riportandoli tragicamente alla realtà nella quale vennero arrestati, denunciati dai loro stessi parenti, – proprio come suo nonno quel Nebula là, uno svitato, una testa calda, ma tu guarda i giovini d’oggi non hanno rispetto né per la legge né per le tradizioni – e rinchiusi nello stesso manicomio dei nonni dove vissero per sempre felici e contenti.

2Stklaus on novembre 15, 2008 said:

insomma, pare che in questo racconto gli unici ad essere sani di mente siano quelli rinchiusi in manicomio. tutto sommato l’analogia con il nostro mondo cronologicamente unitario non è poi così sforzata. si dice che lo schizofrenico non riferisca i propri pensieri al suo Io, ma che li proietti nel mondo esterno sotto forma di voci…uno schizofrenico potrebbe obiettare ” nn siamo noi ( inteso come le sue tre o quattro personalità ) che proiettiamo i pensieri e alluciniamo delle voci, siete voi ( intesi come noialtri sani cn una personalità ciascuno ) che non volete sentire le voci e fate finta di pensarle voi quelle cose lì…”. bisognerebbe scoprire cosa dicono le voci, dopotutto. c’è da dire che il pensiero dei geni, divergente e caratterizzato dalla capacità di considerare i problemi da prospettive anche contrapposte, giungendo a sintetizzarle, assomiglia molto a quello dei matti, c’è da dire che il mondo è talmente grottesco che forse è più da compatire colui che ci si adatta alla perfezione piuttosto che colui che volta la testa dall’altra parte e/o si stacca la testa, direttamente, ci sarebbero da dire un sacco di cose ( anche sul mio impiego della punteggiatura e della lingua itagliuana in toto ), ma resta il fatto che i matti vivono e muoiono soli e senza eredi. che poi magari se gli psichiatri continuano a dire che la schizofrenia è ereditaria a qualcuno un dubbio sul fatto che gli internati scappino di notte per ingravidare le meglio donne della società bene gli verrà anche…

 3zea* on novembre 17, 2008 said:

nettamente avrei preferito l’assenza dell’elfo, restando nella mia indole principalmente sognatrice. Ridurre il tutto ad un fatto di “un giorno salveranno il destino del mondo” fa troppo supereroe da telefilm, la situazione in bilico è appropriata e lascia il lettore tutto al di fuori che insoddisfatto. Il finale aperto suggerisce in modo inequivocabile immagini alla fantasia, e le mie personalmente non si riversano nella tana del manicomio, nè contro i parenti. per una volta una storia alla romeo e giulietta poteva anche finire lietamente, senza ridursi a giocare a fare shakespeare.

5schermaschera on novembre 17, 2008 said: A Shakespeare non avevo davvero pensato, effettivamente il secondo finale serve solo per fare apprezzare appieno il primo, poi mi sentivo in dovere di spiegare che i due rappresentano i pallini dello yin e yang perchè è l’immagine da cui ho fatto cristallizzare la storia, il ribaltamento manicomio/normalità mi pareva opportuno completarlo e un pò di sesso non guasta mai… Il commento sotto era per iniziare una conversazione col lettore, suggerendo un possibile prosieguo per stimolarne di ulteriori, come altri hanno sottolineato si vede anche che è scritto di fretta, a me piaceva di metter più finali e non sono insoddisfatto del risultato, anche se sembra che gioco a far Squotilance

Replica 6zea* on novembre 17, 2008 said:

fa piacere vedere una tale rapidità di risposta e un’abbondanza di giustificazioni che possiamo dire accettabili. adoro lanciare sassolini nelle pozzanghere e sollevare lievi onde. preferirei un maremoto, ma la dolcezza dell’acqua che accarezza i piedi tranquillamente massaggiandoli è comunque piacevole. anche al caro william un po’ di sesso non guastava mai. e guarda un po’ dove è arrivato.

Laggiù… Soffia!

Una volta, su un isola, approdarono naufraghi senza cellulari, nè tutte quelle cazzate che la gente dice di volersi portare, un uomo e un orango. L’isola era tanto piccola che per sgranchirsi le gambe i due primati dovevano muoversi assieme per fare quei tre lunghissimi passi e girando attorno all’unica palma tornare dove si trovavano poc’anzi. La cosa buffa era che per muoversi dovevano sincronizzarsi e andare quasi a braccetto, ma la cosa divertente e assieme sconcertante davvero era che, nonostante nessuno dei due avesse un telefono, entrambi chiamavano il loro dio, una grande scimmia antropomorfa, un illusionista del circo di viziosi di cui facean parte. Lungi dal maledirlo quale colpevole della loro situazione, ancora confidavano in lui e nella sua proverbiale puntualità. Abbagliati dalla follia, continue visioni sfuocate evaporavano in lontananza finchè: hey lo vedi là in fondo? a speck a mist a shape c’è qualcosa che si agita nel mare sopra e sotto le onde qualcuno che si sbraccia nell’estremo saluto -heyyyyy- che sforzo salutare attento ad annegare !

“A speck, a mist, a shape, I wist !

And still it neared and neared :

As if it dodged a water-sprite,

It plunged and tacked and veered.

With throats unslaked,

with black lips baked,

We could nor laugh nor wail ;

 Through utter drought all dumb we stood !

 I bit my arm, I sucked the blood, And cried, A sail ! a sail !” (Coleridge)

Dalla stasi nebbiosa in mare,

qualcosa appare

negli occhi bruciati dal sole,

le riarse e ingolfate gole

dev’essere dio che li viene a prendere a nuoto,

ma dio è un suono vuoto

e subito una danza folle li squote, saltano scimmiottandosi l’un l’altro, centuplicano le restanti forze nell’ultimo breve ma intenso sforzo… l’ultimo sorso d’aria li ubriaca di spensierata ebrezza e poi sotto il peso del loro ballo l’isola inesorabilmente sprofonda … Nel momento in cui balzarono sotto il bordo dell’amniotico oblio, smorzandosi come una sigaretta gettata nel brodo, finendo negli inferi inglesi, umidi come il naso d’un cane, e freddi come occhi di vetro si accorsero di essere stati giocati.

Divago con svago

Un flash di quello, il fratello di Luca quello che faceva il cameriere, dietro alla porta a vetri una sbirciata, infreddolito s’è appena vaccinato contro il fumo, come fumare sigarette che fanno smettere. Forse ignaro sintomo del complesso di Temistocle, ti avveleni poco a poco per avere l’illusione di morire lentamente, farmaco e antidoto, sfumare il tempo per ingannar i confini dello spazio concesso, visto che respiriamo, dato che ci siamo tanto vale farsi un pò di male alla volta per esorcizzare la sofferenza che ci immaginiamo più veemente se causata da influssi esterni nel colpirci; questo complesso è l’altra faccia del Nerudismo ovvero l’esser erede del re erudito, marmoreo propugnatore di vampate di vita prova inoppugnabile dell’insito conflitto di volontà oltre quel bancone, che vuoi mettere se lo guardi da dietro una boccata di piroettante coinvolgente fumo, mentre in fondo godi che ha chiuso che alla fine il No depression… cioè dai amen. Gravido da brivido e pure ruvido ce l’ho proprio in mente, un posto un po tipo la “Noce escabrosa” chissà perchè poi la noce, richiamerà forse un pò le ghiottonerie che promette, e che poi a ben vedere se c’han i coglioni girati ti trattano col culo da dietro al bancone che a conoscerli son simpatici, ci sono pure i personaggioni quelli da cineteca, le partite gratis il caldo d’inverno l’ombra e il calcetto d’estate… niente jukeboxe nè karaoke nè peraltro versi umani in qualsiasi lingua; quelli da ospizio l’ozio è lo zio del vizio, e quelli che valgono almeno quei cinque euri di benzina per darsi fuoco anche perchè Saint Loup è una marca di formaggi francesi che esporta fino quasi a Bellano poi l’ho superato e non son mica stato li a vedere dove andava a parare, a mio parere tant pour parlar ( tant pèr parlà ca va san dir magari fin su a Sondrio dove magari c’è un posto con un nome così, forse era il Decompression e chi si ricorda tutti quei momenti in cui dimentichi chi sei e dov’è il filo del discorso) che sennò tutto il tempo guadagnato a spipettare mi andava in fumo chissà magari se l’avessi seguito mi avrebbe fatto morire ancor più. Galleggiando dolcemente e lasciandosi cullare se ne scende lentamente galleggiando se ne van. Parappappà. Un vaccino antidroga che dia assuefazione, è un atto controvolontà quanto la droga: due probabili immagini di sè si contendono la possibilità di passare all’atto, l’attrito d’un tratto di fatto attribuito all’eterno conflitto tra futuri possibili chè non sempre la più facile è la meno faticosa. Mi dilungo con ulteriore svago on dicembre 17, 2009 said: con temistocle intendevo Empedocle o Mitridate o Damocle un pò come preferisce percepirlo il vostro discernimento, visto il lapsus a voi la discrezione.

Napoleone

 “Oh” m’ apostrofò: “di’ Tutto!”
“niente, non c’è niente,
niente filippiche, niente storie, niente “te l’avevo detto!”, niente “no grazie”, niente scuse”.
Negli occhi dei cani ci puoi leggere di tutto pensavo io, il cane, mentre lui monologava.
Forse una funzionalità interrotta lo depistava dai binari pensieri, forse mediante una capacità sostitutiva vedeva nei miei occhi quello che non gli riusciva di credere di vedere coi suoi, quasi fossero un’anfora da cui attingere un: “chuck norris non lancia la palla, lancia il cane” e sempre quella nuova sete che gli bisognava per sopportare il solito tran-tran. In pratica sto tipo ha fatto i soldi scrivendo quello che vedeva nei miei occhi.
Mi sentivo una prostituta, usato come distributore di stillati di felicità solubile.
L’unica cosa che poteva in realtà esserci nei miei esterefatti occhi era stupore, non mi capacitavo a credere che non se lo inventava, quelle cose erano vere ed erano pur da qualche parte o in me, o in lui nello scolapasta che teneva appositamente in equilibrio sulla cima del capo per contenerle -precipitati raffinati- protette dall’ umida muffa, o magari perlopiù rarefatto e sospeso tra lo stupore e lo sguardo ingordo di lui.
Che se le inventasse o meno per me stava diventando un problema, quel pazzo recitava tutto quello che i suoi occhi dicevano di vedere,mi raccontava per ore quello che poteva scorgere giù in fondo dentro le pupille e dietro le orecchie che stropicciava.
Mi sentivo svuotare come un pozzo di petrolio in fiamme, era come se intere schiere di caloriferi venissero tamburellati e io dovessi vibrare con loro e dentro avvolto nel suono.
La cosa prese un brutto andazzo quando iniziò a rivolgersi a me come ad una persona vera e propria e a voler strusciare il suo muso sul mio provocandomi serie di serissime crisi d’identità e crasi di ruoli, io non ero nemmeno ominideo e lui credeva che fossi omosessuale??
Quando distrutto dallo strazio, ché la situazione mi stava infetta consumando, scelsi di smettere di pensare come un cane e fu allora che lui smise di vedere e pretese che imparassi a parlare dal nulla.
Stavamo appunto proprio nel mentre nel bel mezzo di una lezione sull apostrofo quando s’intrufolò una piccola incomprensione. Spazientito pretendeva che, prima che avessi imparato a parlare, confessassi i miei turbamenti per tornare a leggere le assurdità a cui era assuefatto.

 

Dì trentatrè

Una volta, venne e mi portò a mangiare un gelato…Sperava che riconoscente tornassi a far giostrare nei miei occhi le scenette che nutrivano la sua malata e vorace immaginazione. Dirai: gentile, davvero premuroso; un amico che si vuole sdebitare per ritrovare l’intensa intesa di prima. Già! Se non fosse che l’inverno durava ormai da tre anni, per quanto ricordassi! A sentir lui del resto i pesci optavano per credere che durasse da trentatrè secondi cioè più o meno quanto la loro memoria. Il mio disappunto non era provocato dalla particolare mia percezione dell’inverno, bensì dal fatto che eravamo approssimativamente vicino al polo e se poi calcoli che, a detta sua, – parola che non esagero – il polo è quasi al polo opposto, ti viene un dubbio ma poi subito svanisce e pensi: “ma quanto è taccagno uno che ti offre un gelato anche se sei quasi ma solo quasi quasi al polo?”. Era la storia dei 33 secondi specialmente, che mi aveva rivelato, a lasciarmi di stucco, come una statua di ghiaccio. Passavano la loro vita non in uno spazio tempo ma in un acquario lungo mezzo minuto, quegli stessi pesci che vivevano da millenni prima di noi sulla terra, si fa per dire. Nel gelato doveva esserci qualche tossina, perché il mio tutto organismo era in preda ad una lotta estenuante, ma il mio amico non sembrava preoccuparsene minimamente e continuava a volermi impressionare coi suoi vaneggi sui campi magnetici e i campi scalari e parlava di temperatura dell’ambiente in aumento costante e di densità -che la vita dei pesci dev’esser ben densa visto che hanno una memoria così poco voluminosa- e ancora parlava di campi, di polo e di campi di polo. Ma io non lo stavo già da subito ascoltando: pensavo al gusto del gelato.Guardai l’orario e pensai immediatamente a un acquario fino all’orlo di birra dorata straripante. È strano come pensare ai pesci ti faccia venir sete. Non ricordo altro prima di vedermi come rinchiuso in una bottiglia, come del resto dovevano sentirsi i pesci con quelle forme bislunghe e affusolate che sembra che arrivino tutti dai tubi. Ero fatto…stavo evaporando dalla febbre, e con l’acqua sublimavano i neuroni.. mi ritrovai con il cervello bell’e confezionato in una bara trasparente in un incubo a forma di bottiglia che mi circondava. Non essendo quella che un terzo di litro ed essendo io parecchi chili non ci stavo proprio comodo e grattarsi e persino scagazzare era preferibilmente evitabile, c’era giusto lo spazio per una scoreggia ma poi non respiravo per trentatrè secondi.(chissà cosa gli succede ai pesci se non respirano per trentatrè secondi?). Pensai a quello di cui avevo bisogno e realizzai che mi sarebbe bastato solo un numero infinito di altri decimali oltre ai 33 centilitri. Non che in quel delirio avesse senso lamentarsi, ma se solo avessero davvero fatto le bottiglie da un terzo di litro, io in quella virgola di infinito mi ci sarei ricavato senza intoppi un angolino per starci comodo e uno per starci comodo e cagare. Annullato da quel pensiero sproporzionato, pensai ai periodici che avrei potuto usare per pulirmi il culo in mancanza d’altro, essendo io solo, in tutto quello spazio da sempre tendente all’infinito. Nel bel mezzo di un’allucinazione m’immaginai un vero e proprio paradiso, non era un birrario qualsiasi, era almeno il doppio, e il doppio di infinito per vederlo ci vuole uno svarione caleidoscopico, e per immaginarlo un mare di birre. Ecco che mi trovavo costretto alla vita da qualcuno, in una bottiglia da qualcun’altro e mi sorprendevo a maledire dio che aveva fatto le birre da trentatrè approssimativamente, ma in modo che ci potessi entrare. L’effetto del cioccolato stava svanendo quando come un fulmine sul bagnato mi scosse la mente il pensiero paradossale che mangiare i pesci fa bene alla memoria quanto mangiare cioccolato non fa bene ai cani. -schermaschera- 2clitorideteroclito on novembre 20, 2007 said: L’indispensabilità del luppolo fermentato è permanente in ogni situazione,in ogni sua forma e colore,simbolo perenne di rivolgimento delle forme. Il dibattito sul contenente è quantomai attuale,pur rifacendosi al filone della millenaria dicotomia tra quantità e qualità,entrambi validamente supportati dai personaggi più in vista dei vari centri disparsi in ogni parte del globo. Certo una narrazione alcolica senza un qualsiasi accenno alla figa,anche disinvoltamente casuale,è come un tram senza dio. perle ai porci. schermaschera on novembre 21, 2007 said: giuro che l’avevo messa nei tag

Celere alla cenere

In treno incroci lo sguardo con una sconosciuta come tutte, come nessuna e centomila, e centomilalire che questa se volessi…
Dialogo di sguardi
In realtà lei, pur essendosi seduta quasi di fronte a me, nn vuole interagire… Di solito le tipe carine si mettono ad almeno due miglia di ettari di distanza;
Magari le interesso…
Ci scambiamo sguardi impassibili e indifferenti.
Mi mordo le labbra facendo chissà quale ridicola e spaventevole smorfia… Chissà mai che le piaccia il trash..
Più mi sembra bruttina, più sono disinibito e meno mi pentirò di averla presa in giro.
– Guardo fuori dal finestrino ed esco dai miei pensieri, come schegge mi balenano davanti scene analoghe…
– Mi ricordo una volta un amico e una scena ambientata su di un carro bestiame strapieno, stipati e fortunosamente seduti.
Da parte a me lui, testimone involontario e disattento, e d’innanzi, in fronte a me lei, l’una qualsiasi di cui altrimenti non mi sarei accorto.
Viso serio e anonimo che ammiro mentre gradualmente mi sdraio e imbarazzato, fingendo noncuranza, la noto lasciva e silenziosa venirmi incontro.
Lo sguardo assorto assente perso oltre, al di là del riflesso, fuori dal vetro all’imbrunire. L’occhio saetta dietro a ombre già svanite che il treno tritura.
Muta eccitazione… Sbircio dietro il libro l’eventuale reazione.
Il treno sobbalza e mai come in questo momento sono contento di dare i soldi alle Fs per niente, perchè rimangano lo schifo romantico che sono.
Ad ogni sobbalzo inevitabilmente le spingo il ginocchio sempre più in mezzo alle gambe e ostentando indifferenza rido di niente tremando al contatto.
Impercettibilmente la situazione, non vista, si consuma.
Ricordo il desiderio di baciarla al momento dell’addio; non rammento il suo volto, impassibile ma vero, non ricordo altro–

Tolgo lo sguardo dal vuoto oltre il suo volto e nel mentre, nel corridoio sul treno, passa lasciando un foglietto dietro di sè; una scia;
Un tipo muto che fa l’elemosine.
Lei è coi suoi amici, io leggo un’inutile libro per l’esame il giorno dopo… Fingo come al solito e come sempre in realtà sbircio oltre.
Ogni volta vorrei vincere i vincoli e parlarle e conoscerla; quasi sicuramente anche perchè, forse, a lei non interessa chi sono nè perchè la guardo ed addirittura s’indispettisce.
Eppure divisi dal treno // incroci di sguardi // intrecci d’intenti
E ho deciso di odiarla //di odiare lei e tutte quelle finte occasioni che si ostinano a fissarti, quasi assurde volessero assurgere ad essere più che delle semplici vuote facce che sono // e maledette siano per ogni cosa che vogliono dire e per ogni cosa vorremmo ci dicessero. Maledette quelle belle // fugaci.
Maledette quelle brutte e insistenti quasi nn fossero che immagini in uno schermo con cui è impossibile interagire.//Odio la velocità con cui si dileguano.
Se m’innamorerò perdutamente, dopo averne spiato le pendolari abitudini, le dirò che ogni giorno che non mi bacia sono più felice
perchè è un giorno in meno d’attesa di quando accadrà.

Passa uno sventurato che lascia dietro di sè una scia di foglietti commoventi. Compassionevole e solo:
Aiuto, vedo lo sguardo perplesso di lei estranea bellissima.
Sotto molti altrui sguardi si sente osservata, calamita dell’attenzione, mai rivelerà alcunchè di sè, anzi cerca invece per di più di celarsi, di evitare altera e altezzosa di esser giudicata, di passare inosservata, attrice immobile ignota. “ho dato abbastanza a ‘sti zingari” dice.
E io piango alla menzogna clamorosa di lei, quasi potessi immaginare quanto è abbastanza, commosso piovono acide più che invisibili ma restano aggrappate, fuori dall’occhio dal treno e dal mondo. Amareggiato e impotente, quanti stupidi chissà per quali motivi si mostrano caritatevoli…con che criterio poi…
E quanto spesso e quando raramente // i sensi di colpa corrodono l’immacolata coscienza della società..

E l’imbarazzo e il sollievo nel vederlo -l’infame-
confabulare senza mani coi “fratelli” in una qualche lingua lontana e sconosciuta.
Vedo il muto contar i soldi che la pena vale, che la pietà ha fruttato // quanto voluminoso è il suo sorriso.

Cogli occhi annebbiati da dubbie lacrime guardo quelli dolci di lei
…vorrei amarli per l’eternità // voglio intenerirla // e farla vergognare…
Ma poi vedo, sciolte le emozioni, una ragazza carina e superficialotta che ha appena detto che lei di soldi ai mendicanti ne ha già dati abbastanza, che lei di soldi addirittura non ne ha,
oggi poi non ne parliamo…
E mentre accampa scuse mi dico… son tutti uguali, in tutti c’è il peggio e il meglio che si può e se non ci fosse ce lo metterei io.
è allora che un suo amico mi impressiona : “No Grazie”, dice, come volesse rifiutare cortesemente un’occasione per sdebitarsi,
come se stesse rinunciando a un pò di orgoglio che tanto poco caro è in vendita talvolta.
Di colpo limpide sorgono // lacrime sgorgano al sentire umiliati // occhi malati. Piangono inutili, piovono acide lacrime amare.
Voglio conquistarla e spudorato m’invento attore: mi vedo già le parole danzarle ancelle intorno piango quasi a sentirla imbarazzata.

Dalla bocca del sordomuto vedo il suo alito muoversi, presenza olezzosa di menzogne, rivolta lo stomaco e i miei pregiudizi si riversano, trovano sbocco e mi travolgono, si rivolge alle orecchie tipiche della gente slava, aguzze quel tanto che basta per capire l’inganno.
Chissà quanta vergogna e chissà dopo quanto, e se, e di quanto, l’abitudine smussa i sensi di colpa.
Anche quelli di chi non aiuta chi potrebbe realmente averne bisogno.
Lei come sempre scende senza quasi accorgersi di me -senza girarsi-
quasi non sappia di sentirsi osservata, quasi non immagini nemmeno il piacere che ne trarrei, quasi le costasse.
Anche per questo ho deciso di odiarla.

si forse avrei potuto narrare di veri amori eterni finiti di visioni e non di stralci di realtà rattoppati alla bell è meglio ma a me piace rendere il mediocre speciale

Biostatista

Ho visto una tipa con la maschera a gas l’altroieri in metrò, lei lo fa sempre, se prende il tram mette anche il casco, è una salutista, se scopre che fumi sta ad almeno due metri, evita ogni tipo di cibo dannoso. Per evitare di invecchiare fa nella pausa pranzo un riposino in frigorifero e di notte dorme nuda, nel weekend quando tutti sono in giro lei sta a casa, che è più sicuro. Son quasi certo che abbia una teca di cristallo con cui proteggersi, quando entra in un posto sosta il più possibile soto lo stipite perchè se venisse un terremoto non le crollerebbe nulla in testa. Esce di casa raramente ma non per paura, di solito per andare dal dottore, lei di paure non ne ha, studia biostatistiche e sa come evitare la morte.

Storielle dal culo di seppia

 

maggio 26, 2008 said:

C’era una volta una lucertola che aveva pensato bene di mettere il cuore nella coda, con un lungo addestramento, sforzi e dolori inimmaginabili grande applicazione e tutto il resto aveva pian piano adattato il suo corpo divino affinchè il cuore restasse bene in vista seppur repentinamente da nessuna parte, in modo tale che ogni volta che qualcuno glielo spezzava lei lo faceva ricrescere in poco tempo più ingenuo e fresco di prima.

 

La tartaruga, visto l’esempio della lucertola, decise di copiarla. Raccolse tutte le sue energie e le consumò per spostare il cuore nel guscio. La sua grande ambizione era vivere per sempre ma per far ciò indurì a tal punto il cuore che per lo sforzo e la fatica non pensò a vivere e di lei rimase solo un osso vuoto, per sempre.

 

La formica drizzò le antenne, presagiva qualcosa, qualcuno si avvicinava a velocità vorticosa…era un’ape puttana che buzzava di lì con tutto il brusio che un’ape sa fare mentre balla sensuale, la formica avvampò di lussuriosa cupidigia e mandò un segnale in cielo, il richiamo diretto all’ape mancò però il bersaglio e raggiunse una stella che per l’emozione arrossì e si spense, lo sguardo della formica deluso restò fisso sul vuoto lasciato dall’ape e nelle sue lacrime scintillò ancora per lustri la luce della stella ormai spenta.

 

La stella marina lemme lemme si recò, appesantita dalle preoccupazioni, dall’anguilla luminare che in quelle zone buie brillava per profonda conoscenza della psicologia. Con un turbinio di bolle si sfogò la stella depressa che nessuno la voleva perchè era troppo puntigliosa e colorata e tutti pensavano che era velenosa o almeno contagiosa, pensavano avesse la scarlattina da corallo con febbre da cavalluccio o addirittura il mal di mare e la evitavano come un’appestata. L’illuminata anguilla, un vero pozzo di scienza, da psicologa fine qual’era con un guizzo d’ingegno le consigliò di andare da uno specialista di quei casi. Triste e per nulla rinfrancata si diresse all’indirizzo datole in via delle alghe e quando arrivò guarì di colpo! Là stava il riccio di mare, vero esperto in fatto di repellenza, davanti a lei con tutte le sue spine come a dirle: bada che se non smetti di piagnucolare ti abbraccio! o ancor peggio: m’innamorerò di te e ti rotolerò per sempre dietro come una palla al piede.

 

i frutti di mare sono salati  ottobre 23, 2009

 

Se l’anima è quel qualcosa che sopravvive al corpo, l’anima dei paguri è la loro conchiglia, essi ci scrivono dentro, si scrivono addosso e infine lasciano il loro involucro per tornare ad essere vuoto.

E io come loro, vomito vuoto e ci nuoto e convoglio nella conchiglia parte di me, come maschera e scudo, casa e prigione.

Scrivono intorno al vuoto che lasceranno, e brulica il nulla felice.

 

ameN  novembre 12, 2009 said:

 

L’ornitorinco è quanto mi sovviene di più simile al druso israeliano che conobbi tempo addietro: un mammifero arabo col becco da cristiano che depone le uova come un rettile e crede nella reincarnazione da uomo in uomo; e se gli chiedevamo: e da uomo a donna? attaccava a vaneggiare con discorsi apocalittici: in quel caso la specie si sarebbe estinta per eccessiva masturbazione.

 

Non so perchè ma ho sempre pensato che le autobotti fossero tipo l’auto scatto, solo pù fragorose, qualcosa di meccanicamente perfetto e puntuale, come delle cisterne con dentro annidiato il rumore ad insaporirsi, che poi si autodistruggono in un’ automatica, pirotecnica, fissione a distanza

 

I girasoli per il 90% del sole sono disorientati, fai che il 50% del giorno il sole manco c’è…quindi per il principio antropico tu mica li puoi vedere quindi se li vedi rivolti verso il sole credi che sia una loro peculiarità visto che ci stanno per il 20 % delle volte…

 

L’alpaca è un animale intelligentissimo, pensa che è intelligente quasi come un lama, che è quasi come un cammello, che è quasi come un asino, che è quasi come un cavallo… Insomma è quasi appena ad un passo dall’apice della catena alimentare perchè nel corso di millenni di evoluzione è riuscito a rendere la sua carne talmente ma tanto talmente repellente che se fai uno schemino è sopra ai grizzly che per sentito dire mangiano tutti gli altri. Animale vanitoso, adora essere esposto alle sfilate dove, vuoi per l’abnorme intelligenza, eleganza e portamento, vince sempre. Pare che sia stato selezionato, pensate, personalmente da un esperto scelto a caso da madre natura per avere una lana tra le migliori. Scienziati molto specializzati in particolare in campi molto speciali sembra abbiano invece riscontrato che il motivo del vello pregiato sia da cercarsi nelle turbe psicologiche che affliggono per non dire angustiano gli esemplari femmina della specie che farebbero di tutto per mostrarsi svestiti e avere mensilmente una nuova pelliccia.

Polivalenche

Non doveva nemmeno chiudere gli occhi e già sognava;

avvolto nel suo mantello piumato leggero di nuvole

si calava in un mondo tutto suo, sempre nuovo.

Gli alberi, che di giorno si potevano scorgere dai vetri,

diventavano lugubri irti sentieri che dalla via principale

si diramavano quasi spuntando da coreografie di vecchi racconti.

Incubi pei quali l’ombra di tim burton vaga raminga;

erano viottole strette e anguste,

e lui le percorreva a perdifiato, entusiasta di tutte quelle emozioni

che la notte gli scatenava dentro,

che riservava a lui soltanto.

Tornava sempre col cinguettio dei più mattinieri augelli.

Quasi nn ricordava, quasi sbiadite

le impressioni che riportava non erano mai abbastanza;

ogni notte voleva esplorare di più;

Trovare nuove parole per provare a vivere e descrivere nuove strade;

non ricordava sempre le scelte che aveva suo malgrado dovuto fare

e così ogni tanto ripercorreva la stessa strada annoiandosi se non era quella giusta.

Quando tornava era, nonostante le estenuanti avventure che si era creato,

fresco come una rosa, solo aveva quel groppo alla gola,

il cappio dell’insoddisfazione della nostalgia

per quel mondo sicuramente vero, che c’era solo ad un passo da lui,

nella finestra, ad un passo dal sonno.

Ieri non ha dormito:ha fissato la finestra tutta la notte in attesa che qualcosa tornasse;

un segnale, una prova.

Polivalenche non gioca più di giorno e non ricorda come fare a balzare nell’altra dimensione,

non cammina più da sdraiato né nuota più tra le plumbee nubi.

S’è spenta la sua immaginazione; le piume sono mattoni che lo schiacciano;

la maniglia è un’ancora che l’incatena; non crede che gli alberi di notte diventino altre cose.

Sono rami, non bivi,

nn ostacoli, niente amici.

sono solo nei sogni che dimentico,

spreco il tempo. Non ho a chi dedicare i salti mortali che il vento mi spinge a fare

Polivalenche si lamenta.

Polivalenche trova la finestra chiusa, le persiane sbarrate, il buio l’assale. Polivalenche ha cambiato casa, non vede che lame di luce lunare filtrare.

Polivalenche non ha alberi a cui legare altalene, se bussa alle persiane che affollano la sua mente

Sente solo i gatti, e gli insonni augelli e la luce taglia in diagonale la stanza cupa.

Gloria dorme e sembra che nel sonno agitato stia facendo un tentativo,

vuole sporgersi quel tanto che basta per cadere nel mondo, fuori dalla finestra, sotto i suoi piedi

e trovare un mantello leggero di nubi, una luna, delle strade e polivalenche

polivalen che l’aspetta

ansioso

nei suoi sogni

strade intricate, parole atte all’uopo, dimenticate…

Notte.

Imperfetto

Cosa poteva voler dire con quelle spicce spietate parole? lei lo aveva amato, di questo era certo, ma ora? Doveva davvero rinnegare ogni suo gesto, ogni parola indulgente? E quella sensazione di dipendenza e di fiducia che ancora gli restava appiccicata alla pelle? Doveva davvero credere che tutto fosse andato perduto, anzi peggio, sprecato? Aveva sbagliato nel giudicarla o era semplicemente cambiato tutto ed ora gli si imponeva una nuova scelta? Certo, qualcosa si era sciolto e affievolito, ma era davvero tutto? Gettare ogni momento e ogni promessa o con la fede cieca di una volta tornare a pretenderla indietro, anche a costo di sembrare un idiota? Se prima aveva creduto di poterla rimpiazzare perché la stringeva, perché ora quella mancanza gli sembrava tappare tutti i buchi, riempire ogni possibilità ed ogni istante? Non aveva forse la forza di ricominciare? Certo, la genuinità delle future promesse ne sarebbe stata compromessa, il dolore aveva dunque la forza di cancellare tutte le cose belle a venire ma non quelle passate? Era forse colpa sua? Ecco, era di sicuro tutta colpa sua, non aveva creduto abbastanza o forse troppo, non aveva saputo dire le cose al momento giusto, non aveva sempre agito con naturalezza, aveva forse frainteso? No, impossibile, le parole per sempre risuonavano ancora nelle sue orecchie, ma ora non sperava forse che tacessero? Non voleva forse già dimenticare? Era giusto? Aveva davvero fatto tutto il possibile, aveva quantomeno tratto tutto il bene che c’era in quella storia? Avrebbe dovuto gustarsela di più fino al midollo, fino a sciuparla, senza preoccuparsi di un avvenire? Un futuro vago di felicità inimmaginabile che comunque era diventato come un buco nero, non davanti ma dietro i suoi occhi, ad inglobare tutto dentro di lui, come poteva saziarlo? Cosa poteva sacrificare per tornare almeno a come stava prima di lei, prima che le loro vite scontrandosi si annullassero? Evidentemente non aveva dato quanto aveva ricevuto, altrimenti… perché anche in quella situazione si sentiva in colpa?Aveva sbagliato ad amare? Poteva correggersi in alcun modo? C’era qualcosa di marcio in lui, doveva forse odiare? Riversare tutti i fastidi accumulati in un odio purificatore? Ma poteva farlo? Poteva davvero da un giorno all’altro passare dalla sopportazione di piccoli dispetti e difetti al rinfacciarli? Era una cura, certo, ma non era drastico e dannoso al contempo? Da un minuto all’altro convogliare tutto il tempo passato con lei per la testa, in pensieri contro di lei? Non doveva smettere di pensare del tutto? Un’altra, un’altra avrebbe occupato gli spazi che lei lasciava in ogni fiore, in tutti i simboli che li tenevano insieme, ma non sarebbe stato solo un falso ripiego? Un termine di paragone che avrebbe risvegliato i ricordi terribili perché stupendi, ormai idealizzati, e non sarebbe finito tutto anche con la prossima? Nella fretta di asciugarsi le lacrime avrebbe forse scelto al meglio? Gli occhi gonfi l’avrebbero aiutato? Doveva gridare, sfogarsi? Chiudersi in se stesso? Smettere di fare tutte le cose che faceva insieme a lei equivaleva a smettere di vivere? Ma come facevano gli altri? Ce l’avrebbe fatta? Quanto amore, quanto tempo finiti, quanto se stesso doveva ancora morire per potere smettere, anche solo un minuto, anche solo tra anni, di volerla? Sarebbe tornata? Sarebbe tornata se? Doveva vederla ancora? Un’ultima parola? È vero? Doveva evitarla, disprezzarla per il male che gli stava facendo, così sproporzionato in confronto al bene che gli aveva fatto diluito nel tempo? Doveva bruciare le cose che la ricordavano? Le foto? Poteva bruciare forse i sorrisi che ancora, amari, rievocavano seppur salati di lacrime? Ma forse stava esagerando, come quando era per sempre, una volta convintosene… se ne sarebbe mai convinto? Doveva lavare quei sorrisi con le lacrime,ecco la soluzione, non c’era altro modo, aveva forse scoperto una legge? C’era una specie di contrappasso? Ma gli importava davvero? Non gli importava forse che di lei?

Serendi tip tap

Mi manca il respiro e non solo quello, annaspo, mordo l’aria a occhi chiusi cercando la tua bocca, non riesco a fermarmi ho perso la ragione ogni battito è uno sforzo inconscio, ti stringo per farti male voglio i tuoi occhi bagnati voglio, voglio, voglio!

Voglio le tue labbra storte in smorfie che ansimanti mi riempiono di brividi il collo dietro le orecchie, sentire i muscoli liberi di contrarsi nervosi in spasimi energici quasi animaleschi per poi rilassarsi e sentirli con piacere e dolcezza accarezzarti dentro.

Devi devi devi, non ti imploro non ti chiedo non ti ordino, ti vedo arrivare sconvolta dalla tua assurda volontà, dall’imbarazzo e da quanto sei spregiudicata, avvolta e imbaccucata in vestiti che profumano di te e di cui ti sbarazzerai più in fretta possibile.

Perplessa sorridi non sai che fare sei qui davanti alle parole che ti avvolgono come la nebbia delle favole ti ho invitato in un sogno che presto o tardi si dimenticherà, ti lascio per sempre così a carezzare con lo sguardo l’aria nei minuti vuoti che ti ronzano attorno e resto qui ad aspettarti, per sempre.

Devi devi devi spogliarti dei dubbi e lasciarti andare nella fredda fretta tagliente sul motorino bardata con mille strati eppure tremante come una foglia come il fuoco e la voglia la voglia ti scuote sentirla colare scioglierti in gocce di lava.

è quasi ora: il campanello sta per suonare e mi sveglierà. colto impreparato e un’ansia da prestazione mi sconvolgerà completamente correrò per non farti aspettare e poi prima di aprirti alla mia vita in silenzio tutto trafelato e con farfalle di adrenalina rinchiuse dentro ascolterò le tue emozioni con il cuore nelle orecchie a tamburellare sulla pelle per l’eccitazione…è quasi ora che il mio tempo finisca di esser sprecato e palpiti avvinghiato al tuo.

Senza bisogno di parole, forse un ciao che muore in gola, non speravo che venissi davvero, se sei qui è perchè hai voglia di perderti, di me, l’immensa emozione di non sapere cosa dire e fare, la voglia che ti spegne il cervello e ti riempie gli occhi di speranza.

Dall’altra parte della porta la tua espressione impaziente, ti bacio subito impacciato con la bocca secca per la paura di non piacerti, ti incorono il viso di carezze vorace di scoprirti subito senza inutili parole che soffocano in gola e subito la tua aria sbarazzina e il traboccare delle emozioni negli occhi e spogliarti al freddo per l’impazienza amarti subito immediatamente perchè non aspettavi altro per bruciare l’incertezze e ogni pensiero che non mi parla di te.

Devi guidarmi in punta di piedi, voglio che mi fai male, voglio la tua forza violenta annullare l’imbarazzo, voglio il tuo tempo e il ritmo del tuo cuore accelerato e impertinente e scellerato, voglio il tuo sorriso negli sguardi provocanti, devi cercare i miei occhi per farmi vedere quanto godi per implorarmi di moltiplicare i tuoi orgasmi.

L’occhio triste; quanto siamo disperati per cercare l’amore nel sesso e quanto dura la felicità nel respiro che torna normale ed esplorare ogni centimetro di te teneramente per sentirsi meno soli meno freddo meno stupidi.

Non voglio che tu goda senza sentirti completamente mia, devi sapere quanto sei mia, mio dev’essere il tuo odore i tuoi pensieri lontani la tua rabbia, il tuo corpo nelle mie mani si scioglie in desideri sussurrati, devi pregarmi di smettere di farti impazzire, devi, devi, devi!

Voglio, voglio, voglio te, sconosciuta candela da consumare di lingue di fiamma e morbida cera.

Lusinghe come baci sul collo sulle palpebre strette per sentire di più la lingua calda e il fiato rotto dal timore di non essere abbastanza delicato e poi preso da romantico furore percorrere ogni tuo centimetro e farti vibrare le labbra dallo stupore e farti tremare scossa in convulsi lamenti di inaudita dolcezza e abbandono.

Rispondi ai miei baci muovendoti sinuosa risponde il tuo corpo alle parole che volgari ti sussurro con la lingua nelle orecchie oltre le tue difese rispondi e godi delle mie attenzioni che ti coprono come seta sulla tua pelle vellutata, ti trasformi tra le mie dita in libera e libidinosa divinità del piacere e rispondi con un grido smorzato spezzato rispondi grida grida gridAAAAh.

Nel vuoto pomeriggio riempirti di turbamento, un capriccio corteggiare la porca che sei, coprire il tuo corpo di calore e brividi venirti vicino e sfiorarti e far sbocciare i tuoi desideri con la rugiada e la solitudine sotto le coperte.

AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Il tuo silenzio mi fa impazzire è così prolungato così profondo, sento il tuo respiro e le ciglia che affamate mordicchiano le parole che ti penetrano a scaldarti la giornata, spero che sola baci le lacrime e che ti divori la voglia, che ti corroda i pensieri che non ti faccia dormire che ti riempia di parole con cui farmi sentire quello che provi, quello che vuoi, quello che vuoi, tutto quello che vuoi.

 

Figli di Gandhi

Dopo una discussione, iniziata chissà come, riguardo l’origine del Panda, esasperato dall’odioso atteggiamento strafottente del mio fratello più grande, che insisteva cocciutamente a sostenere che il Panda, il mio peluche preferito, altro non era se non uno scherzo del giocattolaio che si era divertito a combinare un orsetto lavatore e un’orca assassina, preso da raptus omicida, brandendo l’orsetto in miniatura glielo tirai in testa con tanta violenza che, nonostante il mio intento fosse quello di staccare la testa di quello stronzetto supponente e saputello, sortii l’effetto contrario distruggendo il mio peloso compagno di giochi.

Purtroppo le lacrime mi inondarono gli occhi e non riuscii nemmeno a colpirlo con il secondo colpo sferrato rabbiosamente col corpo ancor più inerte in quanto decapitato.

La confusa zuffa che seguì fu forse la più violenta di sempre, probabile motivo per cui ancora nel ricordarla mi si contraggono i pugni dal nervoso e mi si annebbia la vista, e si concluse come sempre a favore suo, più grande di due soli anni aveva infatti un culone esagerato di cui si serviva dapprima per schiacciarmi e poi come artiglieria per soffocarmi del tutto.

Quando nostro padre, richiamato dalle mie urla e dai suoi roboanti boati,arrivò correndo con la faccia minacciosa che assumeva quando lo deludevamo, non riuscii a balbettare piagnucolando nient’altro che la solita frase infantile: “è stato lui”

Puntando il dito non facevo altro che ripetere che la colpa era solo sua e che lui aveva iniziato la zuffa. Conoscendo l’odio che mio padre provava per i violenti non potevo certo aspettarmi quel che seguì.

Muovendosi come se avesse totalmente perso la testa mio padre mi assestò un ceffone senza neppure istituire l’usuale processo che seguiva ogni discordia familiare.

Quando, ancora perplesso per come erano andate le cose e addolorato per la perdita del mio morbido amico, anni dopo gli chiesi perché avesse agito così, mio padre Gandhi rispose così:

“Per prima cosa per odiare la violenza è necessario averla provata, sia sulla propria che sull’altrui pelle; in secondo luogo pur non sapendo cosa fosse esattamente successo potevo ben immaginarlo:

o stavi mentendo nel affermare che era stato lui ad iniziare, commettendo così non solo una sciocchezza ma anche un’ingiustizia nei confronti di chi avrebbe ricevuto una punizione al posto tuo;

oppure dicevi il vero ed eri ugualmente colpevole di aver reagito alla provocazione; essendo io propenso a crederti mi adirai talmente tanto per il mio insuccesso nell’insegnarti la non violenza, che volli mostrarti le conseguenze di un suo più completo fallimento.”

Sgargianti voragini

Ho forse in alcun modo arrecato disturbo a vossignori in quanto numi tutelari del pudor pubblico? Avete forse delle rimostranze da officiarmi? Ho dato adito al sospetto in voi ch’io sia nocivo? non nemmeno verso me stesso lo fu mai il mio intento e del destino nell’abitudine scritto non potrete biasimarmi se da buon concime succulenti frutti. Nel vostro pervertito desio il mio autodistruggermi seco porta pesserrime conseguenze partorite dall’esagerazione, ma checchè ne diciate asserisco dinnanzi l’autorità di cui siete alfieri sincero è un’inaudita iperbole vuota dacchè l’effetto non è nè eguale nè contrario in qualsivoglia pur sempre improbabile legge. Cotalmente apostrofati i villani tutori e custodi della morale loro, confusili a dovere e offesili a piacimento, la più colta delle cortigiane si inginocchiò. c’era una volta ma ormai non c’è più, adesso al suo posto c’è la tivù… entrò in quel libro per la prima volta per curiosità, ma l’ultima volta che fu visto tra quelle pagine nessuno, nemmeno egli stesso avrebbe detto che essa si era esaurita. Come una fonte da cui si attinge la sete stessa faceva crescere lo smarrimento che ogni lettera svelava, ogni piccolo segno era come un buco sul niente della pagina porosa, lasciava perplessi anche quelli che sapevano già come sarebbe andata a finire e anzi specialmente a loro lasciava quell’acquolina di insoddisfazione che si tramutava presto in rabbia. Come un intricato ricamo di niente come ombre di rami ormai morti lasciava l’impronta scheletrica, semplici fronzoli della malinconia che prendevano vita per toccarlo ruvidi e bagnati, tanti piccoli cappi che lo imprigionavano come una marionetta, soffocando la sua resistenza e trascinandolo in alto, spartendosi le note dei suoi pensieri, mescolandoli senza delicatezza lasciando schizzare qua e là quelle che a primo impatto sembravano macchie prive di ordine, suoni distorti sempre lo stesso nuovo, un fastidio come lo sporco sotto le unghie, ma poi di colpo un’armonia a portarlo sopra il velo, a un pelo dal cielo, si lasciava andare come un servo all’inquietudine che lo tiranneggiava in un mare in tempesta di pensieri vuoti che di colpo si apriva in voragini sgargianti per trascinarlo sottosopra, girava la pagina solo quando l’aveva riempita di disegni caotici e furibondi ma lo faceva con una foga che faceva tremare il libro di garrula soddisfazione, facendolo quasi arrossire per l’impazienza, quasi lo stesse spogliando con fretta, quasi affannosamente lo stesse portando all’orgasmo, fasi sempre più concitate frasi sempre più brevi più incisive mordevano in un ringhio il suo lobo instillandogli il brivido selvaggio di un male dolcissimo fin giù nel timpano, lo scorrere del tempo nero e denso come pece su cui poi riversava con tocco leggero ma di una forza estrema calibrata di piuma l’antidoto a congelare il liquido scivoloso su cui capitombolava squilibrato da vertigini e scosse energiche lo svegliavano alla morte che quasi poteva toccare con la lingua la scarica di stimoli che gli precipitavano endovena quando leggeva era pari al numero di costellazioni se le conti tre a tre da sdraiato che senti il freddo anche sotto e se chiudi gli occhi lo svarione te le fa precipitare tutte a tre a tre addosso dentro il petto la respirazione ti schiaccia e le orecchie pulsano come una corsa in discesa molto in discesa che non riesci a fermare più le gambe per parecchi metri e i battiti del cuore nelle ossa che quasi tremano e i crampi al cervello ti fanno pensare a quanto fa male morire senza prima aver lasciato la tua volontà di potenza libera di far danni memorabili da chi poi se tutti muoiono anche chi non volesse fumare e bere e nemmeno ambedue assieme da record che poi senti le bolle in pancia e rumori che ha imparato non sono imbarazzanti perchè anche il papa ha paura delle unghie incarnite e sembrare stupido o stare male con quel cappello e si taglia la barba anzi magari non paga qualcuno per farlo che presto o tardi ti puliranno il culo perchè tanto te lo pulivano già quando non dicevi ancora stronzate perchè non potevi comprare vocali una semplice sequenza di segnali con frequenza variabile y che elevata all’ascensore ti porta quasi all’ultimo piano diabolico o nel seminterrato dove tengono seminari di semiotica dei sempliciotti che nemmeno che nemmeno mi pare il caso di abusare di loro o della pazienza che bisogna pur esercitare da qualche parte per tenere in allenamento la sopportazione che vincerà la violenza semplicemente calpestandola e poi visto che non conta niente e che son tutte stronzate quella di andare a scuola lavorare quelle che ti dicono a scuola quelle che ti dici per lavorare e l’unica cosa che vuoi è essere votato perchè poi puoi volare con un elicottero come i bambini che poi odieranno i carabinieri perchè contano più di loro che adesso giocano con quegli elicotteri che si rompono subito perchè tutti ti vogliono derubare e tu e tu tu sei occupato a leggere che tanto di tempo da buttare ne hanno soprattutto i ricchi quelli di spirito pregano quelli coi soldi si suicidano perchè tutto facile tranne qualcosa che si inventano come tutti come tutto il resto, tutto inventato, la grammatica, le virgole più spedito non devi quasi pensare quello che dici così non sarà colpa tua se qualcuno lo userà contro di te perchè sei un dritto ma chiunque può dire altresì chiunque può ma tu no nemmeno nei tuoi sogni sei libero da quello che ti hanno fatto che non hai potuto scegliere nemmeno il colore dei capelli allora ti fai una vita virtuale dove sarai più te stesso perchè sei solo quello che dici o che lasci immaginare e non è difficile che qualcuno speri che tu sia migliore e quindi lo sarai e per qualcuno sarai speciale perchè ti dedicherà del tempo che ha da buttare come perle ai porci che poi le trovi nel salame che non mangi, per fortuna pensa che brutto morire con delle perle incastonatesi all’altezza del collo ma poi senti una canzone alzi lo sguardo le distrazioni si moltiplicano vorresti uscire davvero dal tuo corpo minuscolo dal tuo cazzo minuscolo dalle tette troppo piccole o troppo grosse dalla camminata strana e semplicemente tornare indietro e cambiare tutto perchè faresti di meglio ma poi torni troppo indietro e uccidi i tuoi genitori per tornare nel nulla o in prigione

Nel limbo in balia dell’oblio

Entrammo nel bugigattolo ancora infreddoliti e ordinammo qualcosa, non ci vedevamo da secoli e sebbene l’atmosfera non fosse delle più accoglienti la conversazione protraendosi a lungo ci tenne nel localino fino alla chiusura. Era l’una o giù di lì e fuori il vento gelido non si era certo ingentilito ma ormai l’alcol ci aveva immunizzato, facendoci dimenticare di sentirci sfiorati dall’aria sferzante, trasformando l’alito notturno in una brezza sopportabile, quasi carezzevole. Il freddo ci digrignava i denti e ci accapponava la pelle ma eravamo troppo presi dai nostri ricordi e discorsi e baci per accorgerci che la nebbia stava sconvolgendo le cose offuscandole, inglobandole in un indefinito marasma di echi di luci di fari e lampioni lontani e soffusi. Guardando verso l’alto non riuscendo a distinguere i contorni delle cose era come se fossimo in un limbo sconosciuto e la delicata pioggia che aveva appena iniziato a colarci addosso pareva quasi sospesa a mezz’aria ad aspettarci tanto che l’impressione che suscitava era che stessimo noi andando, pur restando immobili, contro la pioggia in una specie di fascio ascendente come levigate statue avvinghiate in una levitante fontana marmorea risucchiata dalle nubi quasi il tempo riavvolgendosi intorno a noi condensasse l’umidità palpabile dell’aria e facendola rimbalzare sui nostri corpi la respingesse verso l’alto in finissime colonne erette per sostenere e gonfiare la conformazione confusa del mare di nuvole che pareva permeare e assorbire i confini delle cose e con leggiadra prepotenza lacrimando, rovesciandosi in rivoli volteggianti incastonava l’indefinito in luccicanti gemme accecanti nei nostri occhi acquosi e lucidi. Isolati dal resto del mondo, in una brillante bolla di spazio, invisibile per la spessa e densa nebbia, sembrava che il tempo frinisse come un esercito in groppa a grilli lanciati al trotto, le gocce ghiacciate a contatto con la pelle scandivano il ritmo del momento ma ci giungevano senza lividezza, ovattate anch’esse dalla vaporosa coltre adagiata su ogni cosa, scossa e cesellata da zigzaganti arzigogolati fiumi di fumo.

London fox

La natura che soffre a causa dell’uomo. Cos’avrò mangiato? Notte di quasi luna piena. Quasi l’uniche in cui di questi tempi valga la pena uscire, quelle che ne manca tanto poco che te ne accorgi appena. Saran state le sei e il chiarore della luna stava iniziando a sbiadirsi con quello freddo del mattino nel quartiere giamaicano di londra quando tra pile di mattoni rossi con di bianco legno infissi spiai una volpe che si aggirava guardinga. guardingaggirandosi lei seppur attenta colsila nell’impudico gesto tutta intenta. Cos’avrà mangiato? Si vide, immortalata in tal frangente, la fece ancor più molle, d’onor si denudò. Ecco, mi passa di colpo la sbornia in uno sguardo si rischiara la giornata, in un’ istantanea colgo lo scandalo che venderò con un pajo di ritocchi e un pajo di righe dal titolo.