Altrovità

Sono due anni che scrivo su un blog, non il mio.
Non conosco nè ne ho mai conosciuto il Creatore, ma me lo dipingo arcigno su un trono, seccato da tanto mielenso snudarsi.
E’ diventato per me un secondo mondo, dove in pratica mi rifugio non appena possibile.
Mi ci sono incistato come un parassita su un organismo morente. Finchè io ci starò sopra esso vivrà e finchè esso vivrà bè io potrei anche stancarmene e lasciarlo morire, per poi magari resuscitarlo più avanti per capriccio cristiano.
In pratica è come se fosse mio, io ci monologo fingendomi diverse voci e punti di vista, dibatto e discuto e cito e improvviso.
Non aspetto altro che qualcuno commenti, interagisca con quella parte di me che non può che fremere al pensiero d’esser in mostra.
Ormai nessuno lo legge più da mesi, anche se non posso dirlo con certezza perchè non ne ho la password ergo l’accesso alle statistiche.
In pratica gioco ai trenini in una stazione di binari morti, internet è abbastanza vasto e intricato perchè i miei lazzi restino sepolti.
Eppure temo il giudizio e l’indifferenza, come se potendo essi effettivamente esser realizzati s’attuassero nell’immediato scoccare del pensiero
che profetico s’autoadempie.
Scrivo come un bambino, su un diario in un cassetto, di nascosto per vergogna, vergogna di sperare che qualcuno trovi belle anche se semplici e contorte,
e senta sue le mie parole, che rispecchiandovisi riconosca di assomigliarmi.
Qualcuno che non conosco e che non deve avere una faccia.
Il bello della rete è che contano di più le parole e sono più soppesate. Il bello di un blog altrui è che non puoi ritrattare, è una gran bella responsabilità, è una sfida che il tempo vincerà sempre rendendo ridicole parole che una volta invece ti facevano sobbalzare d’orgoglio.
Niente errori niente refusi per mesi, e poi di getto uno sproloquio più istintivo che ragionato, uno sfogo catartico, il paradosso di pubblicare qualcosa in un angolo cieco, dietro la lavagna di qualcuno. Dove c’è solo il rischio d’esser o meno letti, e in quello strano e malaugurato caso schiacciati sotto i tasti canc o delete o sotto un click su erase.
Qualcuno d’invisibile che può cancellare per sempre quelle parole che per un attimo son state le uniche degne d’esser lasciate, o almeno così sembrava.
Così poco da dire e quel poco detto male, ma almeno indelebile da qualche parte.
E sentire di voler cercare l’approvazione di questo altro che ha il potere di vita e di morte su quello che dici.
Colui che ha la chiave del luogo intangibile che hai eletto a tuo scrigno, tu patetico scrivano indegno.
Ormai sono due anni che nessuno risponde, almeno prima c’era un surreale susseguirsi di sussurrati paradossi, urli di quasi paraurti.
Come l’edera prospera su rovine di templi e tronchi avvizziti, così infesto uno spazio virtuale introvabile e dimenticato.
Mi sento il peso della libertà addosso, il potere di dire qualsiasi cosa, soprattutto cazzate di cui pentirsi, e il detentore della chiave si rivela impietoso, non interagisce quasi non me lo meritassi, forse è morto, forse è solo stanco.
Non certo chiunque lascerebbe qualcosa di prezioso dove possa esser scovato da chicchessia.
Non riesco a non sentirmi abbandonato eppure continuo a scriverci caparbio e imperterrito, costante come la pioggia.
Un segno lasciato nel buio su un supporto immobile nel tempo ma sottoposto ad una volontà estranea, potenzialmente immortalato.
Una raccomandata con ricevuta di ritorno ma senza destinatario. Un grido d’aiuto d’un muto sottacqua, un salto nel vuoto sapendo che è un sogno.
è come scrivere sulla sabbia per registrare negli archivi delle immagini satellitari senza sapere nemmeno in quale emisfero si stia ma sapendo di esserci e di volerlo testimoniare quasi fosse un’alta missione. Quasi non fosse patetico.

Posta un commento o usa questo indirizzo per il trackback.

Lascia un commento