breve storia biobliografica dell’antropologia

1871 Inghilterra vittoriana, vengono pubblicati Primitive Culture di Tylor e Sistemi di consanguineità di Morgan.

È questa la data in cui per convenzione si fa risalire la “nascita” dell’etnografia antropologica, che in quanto studio dell’uomo e dell’umanità, delle costanti nelle diverse società, è da sempre presente nell’ homo sapiens, che si chiama così proprio per quello e che prevalse nel mondo soprattutto per la sua capacità comunicativa.

Per un interessante approfondimento vedere la mostra Homo Sapiens a Roma al palazzo delle esposizioni.

Dall’evoluzionismo darwiniano cioè delle specie, si passa all’evoluzionismo delle “razze” umane e delle loro culture.

Dopo millenni di viaggi di mercanti, guerre,  invasioni e diaspore, missionari e studiosi del genere umano attraverso le culture, da Erodoto a Cesare a Marco Polo e secoli di osservazioni riportate dalle colonie riguardo i costumi, le credenze, l’arte, le tecnologie, il diritto, i riti e le abitudini di diversissimi popoli un certo J.Frazer può, dalla sua poltrona, far uscire Il Ramo d’oro, del 1890, fantastica summa di conoscenze ordinata in un filo più logico “fatto ad arte” che temporale, in un percorso che attraverso magia e religione porta l’uomo di ogni parte del mondo dalla superstizione alla scienza .

La scienza non può che rimproverarsi per aver fallito in passato, tesa com’è verso il progressivo superarsi.

Ogni corrente critica la concorrente precedente per questioni o epistemologiche o inerenti alle visioni dell’uomo sottese alle generalizzazioni conclusive delle ricerche dei predecessori senza mai rinunciare ad una pretesa di scientificità maggiore, nel gran cammino di accumulo e critica del pensiero che è la cultura occidentale.

Boas, di formazione tedesca, in America, nel 1896,  in un articolo intitolato “Limiti del metodo comparativo in Antropologia” cerca di riportare l’Antropologia sul campo, perchè certe analogie possono essere riscontrate solo o meglio di persona e le generalizzazioni sono artefatte se le testimonianze non sono dirette, per lui è vero che le culture si influenzano, ma solo quelle vicine, altre che possono sembrare somiglianze e ricorrenze in diverse parti del globo possono scaturire da differenti concatenazioni di cause.

Ma già nel 1724 Jean-François Lafitau pubblicò Les moeurs des sauvages ameriquains, comparées aux moeurs des premiers temps studio comparativo di diverse tribù canadesi, attraverso l’osservazione partecipante e la conoscenza delle lingue autoctone, la cui religione è ritenuta dall’autore molto simile a quella greca. Studio ridicolizzato da Voltaire che d’altro canto in Canada non mise mai piede.

Nel 1897 pubblica un saggio sul Potlach, rito che ancora oggi sopravvive in molte parti del mondo con diverse forme, che si consiglia di approfondire visto che riguarda il dono e lo sperpero come funzionali ad acquisire rilevanza sociale, potere, con riferimento sia al clientelarismo romano che allo spreco di neuroni nelle serate tra amici. Un esempio del chi più ha più dia che assomiglia al “Da ognuno secondo le sue possibilità” Marxista.

Il suo può essere denominato Particolarismo, una cui deriva è il diffusionismo, una visione che mette in risalto come le culture si influenzino o mescolino “a macchia di leopardo” per vicinanza, scoraggiando gli arditi paragoni tra riti agli antipodi.

Sul continente è in Francia invece che si sviluppa un altro percorso di studi.

Tra i pionieri dell’etnoantropologia occorre ricordare una società di filosofi francesi che si istituì alla fine del Settecento: la Société des Observateurs de l’homme, fondata nel 1799, un caso interessante studiato dalla Société fu quello del bambino selvaggio dell’Aveyron cresciuto dai lupi nel 1800.

Dopo che Comte aveva postulato la sociologia come scienza e la scienza come religione, i post-positivisti della cosiddetta Etnosociologia Francese, Emile Durkheim e suo nipote Marcel Mauss pubblicano rispettivamente ma non solo nel 1912 Forme elementari della vita religiosa e, nel 1923, Saggio sul Dono; Di Gennep da leggere Riti di passaggio del 1909.

In questa “scuola” si cercano gli universali attraverso sistematizzazioni scientifiche dei dati con un rigoroso metodo sociologico, in cui i Fatti Sociali, collettivi, condivisi, hanno potere costrittivo (Parallelismo con la filosofia del linguaggio del circolo di Vienna?) . Un esempio è Rappresentazione collettiva della morte, 1907 Herz: la morte è uno scandalo, un fatto sociale che richiede un rito per ripristinare l’equlibrio: già nelle Storie di Erodoto V sec a.C. ,del resto si paragono gli usi funebri di popoli diversi, Greci e Galati per sottolineare l’universalità delle usanze ma al contempo le differenze nelle modalità. Curioso il fatto che ancora nel ’04 in Francia era possibile sposarsi con un morto.

Contemporaneamente a questo slancio scientificista che calcola la media delle credenze comuni per definire cos’è la coscienza collettiva, dalla Gran Bretagna partono nuovi input per un ulteriore avanzamento metodologico.

Il Funzionalismo “Britannico”( i suoi componenti sono rimasti ben poco nel Regno Unito) introduce l’aspetto di società come organismo organizzato dal funzionamento olistico, la cultura è vista come uno strumento per soddisfare dei bisogni primari e il lavoro sul campo fieldwork diviene necessario, perché lo strumento in più che lo scienziato-viaggiatore ha, è l’Osservazione Partecipante. Per capire al meglio la realtà studiata bisogna assumere il punto di vista dell’indigeno, un punto di vista emico che senza la conoscenza della lingua locale o almeno un pidgin non è possibile.

1922, Londra, Malinowsky, di ritorno dall’oceania, pubblica Argonauti del pacifico occidentale, frutto del lavoro di anni sul campo, volente o nolente completamente isolato. Nello stesso anno Alfred Radcliffe Brown pubblica The Andaman islanders. Ad oggi molti archeologi e antropologi sono proprio discendenti delle tribù superstiti, è di ottobre 2011 la notizia dell’incontro con una tribù “vergine” ,che non aveva mai avuto contatti con il mondo esterno.

In Italia è solo dopo la seconda guerra mondiale che, liberati anche dalle concezioni razziste che impregnavano la cultura imbrigliandola in stereotipi volti a spiegare la superiorità degli italiani giustificando il colonialismo imperialista e le leggi razziali, si sviluppa la Demo-etno-antropologia di De Martino, allievo di Croce, secondo cui non è un antropologo solo che deve condurre la ricerca bensì una squadra di esperti in differenti campi: sociologi, psichiatri, folkloristi e linguisti con l’ausilio necessario di tecnologie quali il magnetofono o la cinepresa.

Il percorso stesso della storia dell’antropologia è, per così dire, esplicativo della sua stessa scientificità.

Ciò vale a dire che pur con la consapevolezza che l’uomo è una variabile irriducibile, le fasi della ricerca e della storia di essa tendono ad una sempre maggiore scientificità con sempre maggiori precisazioni: le differenti scuole di pensiero che si sono succedute non sono da vedersi semplicemente come contrapposte tra loro ma come parte di un cammino unitario. In questo caso si parla di Catallassi, parola greca traducibile con il cum-petere latino, ovvero l’aspetto positivo della concorrenza, della competizione, cioè il tendere verso qualcosa insieme.

L’intero percorso somiglia al metodo scientifico che teorizza prima, si pensi all’antropologia “da poltrona” evoluzionista, poi sperimenta sul campo che è il laboratorio dell’antropologo, per infine, una volta rilevate le strutture e le loro funzioni tornare “a casa” per cercare di tirare le fila e generalizzare il meno peggio possibile grazie all’uso regolativo dei concetti affinché il ragionamento sia replicabile, la falsicabilità soprattutto quando si parla di soggetti umani è imprescindibile.

Ogni scuola criticando quella precedente non fa che partire da essa, ogni corrente fatica a riconoscere e a mettere tra le premesse del suo ragionamento il background da cui sfocia, fino all’osservazione della partecipazione o “all’osservazione osservata dell’osservatore” della Barbara Tedlock che è ciò che Husserl introduce nella filosofia, l’epochè fenomenologica.

Il ragionamento di Husserl nella Crisi delle scienze europee mira a rendere sempre evidente anzitutto che l’osservatore è parte del fenomeno che osserva, che il contenitore è sempre contenuto nel contenuto, in un certo senso è ciò che in statistica si chiama effetto Hawthorne cioè l’imprevedibile perturbazione che la rilevazione avrà sul campione osservato, che quando è un umano, avrà reazioni improbabili da prevedere, ma quando è addirittura una società, calcolare gli effetti del fatto di sentirsi osservata sarà a dir poco impossibile.

Non importa più soltanto, e nemmeno soprattutto, la mole di dati raccolti sul campo, perché come dimostrano le critiche mosse da Freeman alla Mead, senza un metodo valido che sia anch’esso oggetto dello studio del ricercatore la ricerca non ha senso, non solo non è replicabile, cosa semi-impossibile anche solo per il naturale sviluppo nel tempo di una cultura, ma senza controlli è puro e semplice frutto della mentalità dello studioso applicata ad una certa situazione.

Ad esempio una giovane idealista Boasiana probabilmente dopo aver letto Rousseau alla sua prima esperienza sul campo, cercando di criticare la sua cultura ha voluto trovare proprio quello che cercava, cioè che esiste un posto bellissimo dove non hanno remore sessuali e dove l’adolescenza femminile non è traumatica come quella che lei deve aver vissuto nel suo mondo crudele e maschilista. Ma il ritornare sul campo è un ulteriore passo verso una maggiore critica della scientificità dell’ antropologia, infatti nemmeno lo stesso ricercatore a distanza d’anni con i suoi appunti in mano riscontrerà la stessa realtà.

Ma una volta attraversate le diversità, raccolte una mole di informazioni notevole, sotto più punti di vista, etico ed emico, scientifico e umano, l’antropologo deve tornare nel suo studio e fare il secondo step dell’etnografia, produrre documenti, rendersi conto che se le varie etnie ben separate e quasi isolate hanno tratti culturali comuni, un inconscio strutturale comune o anche solo una struttura che risponde a dei bisogni primari identici, le culture mescolate nel nostro mondo avranno carattere più individuale, ognuno sarà un aggregato stratificato di culture.

È  in questa direzione che punta il relativismo culturale, visto che i processi migratori non si fermano, ed è una fortuna che il processo sia pacifico, è necessario spiegare a tutti di generalizzare il meno possibile, di “naturalizzare” il meno possibile, se alcune persone rubano non è perchè è nella loro natura, è perchè nella nostra realtà le loro condizioni li spingono a farlo. Rubare è una cultura? Sul perchè rubare è illogico se non disumano rimando al saggio…link

Una volta che le identità culturali se non propriamente ancora mischiate sono vicine e comunicanti è inevitabile che in alcuni individui si rafforzino e che altri invece si aprano al diverso e al cambiamento.

È in questo senso che Remotti riprendendo Levi-Strauss, intende che ogni essere umano ha una sua cultura, è giunto il tempo in cui l’identità culturale uno se la sceglie, l’inculturamento non è più un fattore passivo da parte di un istituzione stabile e unica ma il singolo può paragonare ciò che ora gli sta vicino anche se è nascosto da pregiudizi e tacciato di non essere “naturale”, e fare le sue scelte. Quante religioni, sette, ceppi linguistici, etnie (da considerarsi strettamente relato all’aspetto esteriore, ai tratti somatici tipici) sono presenti e cooperano in Italia?

Ed è a questo punto della riflessione che entra in gioco il leghismo.

Questo movimento politico che ha come suo scopo creare un nuovo stato è perfettamente conscio che per farlo deve prima creare senso d’appartenenza e quindi d’esclusione, deve creare e diffondere l’idea che esista non una “razza” perché sarebbe nazismo, ma un’identità culturale profondamente diversa da quella italiana o europea.

Ora come intenda farlo non è difficile da capire, è sotto gli occhi di tutti: sfruttando il razzismo che prolifera nelle valli chiuse dove gente troppo vecchia o troppo povera non ha mai viaggiato, sfruttando quindi le paure ataviche verso il diverso, o anche solo verso il simile concorrente per un posto di lavoro, e in un altro modo, cioè proponendo nuove tradizioni, cercando cioè di creare anche attraverso una rilettura della storia, un’identità culturale.

Ma quali elementi in comune hanno e potranno mai avere la Liguria e le valli bergamasche? Che ne è dell’unità linguistica necessaria per creare uno stato unitario? La storia della Val d’Aosta in che modo può confluire in un’entità statuale con quella che fu la Repubblica di Venezia, se non nella già esistente Italia?

La lingua comune della Padania è l’italiano, la storia comune è quella dell’Italia, almeno fino ad adesso, ma ciò non basta a fermare i leghisti, che anzi creano. Creano riti nuovi, ridicoli per chi li vede dal fuori ma evidentemente coinvolgenti e simbolici, cercano di confondere la popolazione mischiando informazioni e culture, si dicono discendenti dei celti ma sono di retaggio cristiano: avendo come scopo la chiusura politica hanno come mezzo la chiusura mentale.

Un elemento fondamentale della loro immagine è infatti la “genuinità” che giustifica l’ignoranza, il loro linguaggio non è “populista” è grezzo. Ma le etnie esistono, come dice Fabietti, al di là dell’uso regolativo di tale concetto, esistono per chi ci crede, ed emergono quasi esclusivamente per creare scontro e non confronto.

Degli immigrati che non vogliono altri immigrati per integrarsi o per interesse personale acquisito è addirittura superfluo parlare, hanno assimilato la parte peggiore della mentalità capitalista, che contribuiscono a mantenere.

Dell’uso a sproposito di certe definizioni antropologiche fa certamente parte un cartellone elettorale esibito durante l’ultima campagna elettorale con un capo indiano dipinto e una frase che suonava “loro hanno subito l’immigrazione, adesso vivono nelle riserve”. Paradossale, paradossalmente proprio per questo un’ottima pubblicità, un messaggio indelebile. Questo è l’esempio per eccellenza di estrapolazione di un concetto dal suo contesto, concetto che suscita empatia: “poveri indiani io quand’ero piccolo leggevo tex willer e coi miei amici facevo sempre l’indiano”. Paradossale perchè la situazione è inversa, in quel caso erano i cowboys, più forti, a invadere e non semplicemente ad emigrare come oggi pacificamente fanno i più deboli dalla povertà verso la ricchezza. Paradossale anche perchè la soluzione proposta, ad un diverso problema anzi al suo inverso, è la stessa. Lo scontro, la guerra, sappiamo che adesso siamo noi i cowboys e allora teniamoli fuori. Ma con ciò non si esaurisce l’assurdità implicita nel messaggio, infatti il tener fuori gli altri significa rinchiudersi da soli nelle riserve, il messaggio può dunque far votare per la lega solo gli analfabeti che non sapendo la storia degli indiani che forse da un paio di numeri di tex willer e simpatizzando per quelli che avendo le pistole possono sostenere un assedio.

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